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I giornali, come al solito di fronte a questi casi, hanno scritto “raptus omicida” (Ansa e Tgcom), “duplice omicidio passionale” (Agi), “inarrestabile follia omicida” (La Sicilia), “furia omicida per motivi passionali” (Adnkronos), “uccisa per gelosia” (TM news), “duplice omicidio per motivi passionali” (Corriere): insomma hanno trattato un atroce fatto di cronaca nera con un movente di genere, che a casa mia si chiama femicidio, come un caso estremo di amore non corrisposto che ha causato la morte di due persone e in cui l’autore è stato descritto come un ragazzo riservato, schivo, introverso, ovviamente incensurato, richiamando alla mente l’immaginario di un uomo troppo innamorato per poter accettare la separazione dalla ragazza con cui aveva condiviso 4 anni della sua vita.
Parole e toni, quelli usati dalla stampa nostrana, che questa volta però non sono riusciti ad attutire la feroce mattanza che due giorni fa si è consumata nella palazzina di via Cairoli, a Licodia Eubea nel catanese, e che ha sollevato un sentimento di indignazione in tutto il paese.
Stefania Noce aveva 24 anni e insieme al nonno, Paolo Miano di 71 anni che ha cercato di difenderla, è stata trucidata la mattina del 27 dicembre con numerosi colpi sferrati con un coltello da cucina per mano dell’ex fidanzato, Loris Gagliano, 24 anni anche lui, che non riusciva ad accettare la fine della relazione. Un atto folle, hanno scritto i giornali trattando il caso di Stefania come uno dei tanti casi isolati di omicidio per troppo amore, per un uomo così legato alla vittima, da tentare di raggiungerla con un tentato suicidio subito dopo il delitto, fino a essere colpito da improvvisa amnesia appena catturato dalle forze dell’ordine.
La verità è che Gagliano era andato quella mattina a casa di Stefania con ben 4 coltelli – poi ritrovati in macchina – per eseguire un delitto per cui è azzardato parlare di raptus momentaneo, e quando aveva citofonato insistendo per entrare, Stefania aveva aperto la porta al suo assassino perché forse era convinta di farlo ragionare, di chairire ancora una volta le sue ragioni senza pensare che quel ragazzo poteva essere pericoloso: perché? Stefania frequentava la facoltà di Lettere a Catania e Loris faceva Psicologia a Roma, due ragazzi normali: “Lei era estroversa, vivace, determinata – ha detto un amico dei due ragazzi a Repubblica – lui possessivo, introverso, quasi ossessivo. Per lei la storia era finita, ma lui non si rassegnava e le scenate erano continue. Ma chi poteva mai pensare che potesse finire così?”, esatto: chi poteva pensarlo?
Nessuno perché la cultura insegna che è normale, che un uomo “passionale” è così, è possessivo, ossessivo, e anche violento, e se un marito fa una scenata di gelosia la fa perché “ama”.
Quante volte donne che dopo anni di sopportazioni sono andate a denunciare mariti violenti e fidanzati maltrattanti alla questura, sono state rispedite a casa con un “ma signora, è normale, ora vada a casa e fate pace, e stia più attenta la prossima volta, non lo faccia arrabbiare”, quante volte nei tribunali mariti violenti sono considerati al pari della moglie per l’affidamento dei minori con conseguenze devastanti, quante minacce anche di morte da parte di ex partner-stalker sono considerate “normale condimento” di un rapporto conflittuale.
Ed è così, per questa cultura che rinnega e relega nel silenzio, con la complicità dell’informazione che smorza, attutisce, rende il caso eccezionale, opera di un folle gesto che non riguarda la normalità, che le donne diventano resilenti, riducendo psicologicamente la paura e non riconoscono il pericolo in un ex, un marito possessivo, un fidanzato geloso, uno spasimante rifiutato, perché anche se questi uomini sono violenti la cultura li rende “normali” e le donne non temono di poter essere uccise, una convinzione letale che le porta a incontrare i loro assassini.
L’anno scorso, poco prima del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza di genere, una ragazza fu uccisa a Terracina dall’ex fidanzato con una dinamica esemplare: l’uomo aveva tentato di uccidere la ragazza un anno prima ed era stato denunciato da lei, in Tribunale il giudice aveva stabilito però la “non pericolosità” dell’individuo ed è per questo che dopo pochi mesi, alla richiesta di lui di incontrarla per chiederle scusa, la ragazza si recò a casa dell’uomo e fu uccisa.
“La percezione del pericolo da parte della donna è in relazione a come l’uomo viene considerato dalle istituzioni – mi disse all’epoca dei fatti Mariolina Martelli del centro “Lilith” di Latina – se l’uomo non viene allontanato subito, o è anche ai domiciliari come in questo caso, la donna percepisce un pericolo minore e si espone, cioè si mette lei stessa in pericolo di morte”. Una percezione, quella della normalità della violenza maschile in casa e nella società, che viene avvalorata e sostenuta in maniera pericolosa anche dai media che trattano con disinvoltura fatti gravissimi su cui, invece di indugiare nel descrivere particolari morbosi estrapolati da contesti più ampi, sarebbe doveroso fare nuova luce dando spessore ai fatti singoli, per spingere a riflettere su cosa dovrebbe cambiare in una cultura che relega ancora le donne a oggetti di controllo, uso e consumo.
Una cultura ancora potentissima in Italia dove a uccidere non sono gli stranieri (meno della metà), ma gli italiani e sono i mariti (22%), gli ex (23%), i conviventi (9%), i figli (11%) e i padri (2%), e per la maggioranza non sono semplici atti di follia isolati ma l’epilogo di violenze fisiche, sessuali, psicologiche, di maltrattamenti e umiliazioni costanti con scoppi d’ira dovuti al possesso che l’uomo decide di voler esercitare sulla donna, perché il femicidio, sia ben chiaro, non è un atto di follia, ma una conseguenza estrema del totale controllo sulla donna, in cui l’uomo decide di disporre del corpo femminile, sia teoricamente che materialmente, fino alla morte.
Nel mondo 140 milioni di donne hanno subito qualche forma di violenza (una su tre), che è anche la prima causa di morte o invalidità tra i 16 e i 44 anni, e ogni anno vengono stuprate 150 milioni di bambine; in Italia 7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito nella vita almeno un tipo di violenza, e i femicidi negli ultimi cinque anni nel nostro paese, sebbene non esista un osservatorio per gli omicidi di genre come in Francia e in Spagna, sono aumentati in maniera costante del 6%, come rilevato dalla ricerca della Casa delle donne di Bologna inserita nel “Rapporto Ombra” presentato a Luglio alle Nazioni Unite.
Quest’anno le donne uccise nei primi nove mesi erano 92, un numero a cui dobbiamo sommare i femicidi tra ottobre e dicembre, perché nel giro di poco tempo il conto dei femicidi è un diventato un bollettino di guerra. Così a Stefania Noce dobbiamo aggiungere: Daniela Bertolazzi, 60 anni, uccisa in camera da letto dal suo convivente, Pierluigi Petit di 58 anni, a martellate sulla testa, nel quartiere Pindemonte a Verona; Silvia Elena Minastireanu, romena di 20 anni, uccisa il 23 dicembre a casa sua, in via Monte Sirente a Francavilla, strangolata da Luca D”Alessandro, 18 anni; Rosa Allegretti, prostituta uccisa da Costabile Piccirillo, giardiniere di Agropoli, trovata seppellita con mani e piedi legati nella zona di via Mascagni, colpita con un bastone e con in bocca con un fazzoletto e nastro isolante; Mariya Alferenok, ucraina di 53 anni e da dieci anni a Melfi, uccisa a calci e pugni dal convivente, ritrovata col volto tumefatto a casa sua.
A questi si aggiungano i probabili femicidi di donne scomparse, volatilizzate nel nulla o uccise senza un movente apparente, come Eufemia Biviano, 62 anni, assassinata nella sua abitazione a Lipari la vigilia di Natale, in cui non si riscontra né rapina né tentato scasso, e dove la vittima, come da copione, avrebbe aperto al porta al suo assassino.
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