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Rosa López Díaz è una detenuta messicana che vive nel carcere San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, con il suo secondo bambino, Leonardo di due anni, dopo aver perso il suo primo figlio, Natanael, nato malato per le torture subite. Lo scorso aprile ha scritto alle Madri antifasciste di Roma lanciando un appello accorato, una lettera straziante che sabato è stata riproposta al Museo storico della Liberazione di via Tasso, a Roma, durante il convegno “Prima le donne e i bambini – Maternità e infanzie negate dietro le sbarre”.
“Sono una indigena di lingua tzotzil” – ha scritto Rosa. “Sono di famiglia umile e povera. Mi hanno arrestata il 10 maggio del 2007 insieme a mio marito con l’accusa di un reato che non abbiamo commesso. Ho subito trattamenti inumani come la tortura fisica e psicologica, e minacce di morte. (…) La cosa più dolorosa della mia vita è che durante le torture ero incinta di quattro mesi e ho dato alla luce un bambino di nome Natanael, nato con danni cerebrali, il volto deforme e paralizzato”.
Rosa ha 33 anni ed è stata condannata a 27 anni e 6 mesi di reclusione (dopo uno sconto di pena di… 17 giorni nel processo d”appello) perché suo marito, Alfredo López Jiménez, ha commesso reato aiutando il cugino a fuggire con la sua fidanzata, una ragazza che aveva una colpa ancora più grave: essere figlia di un proprietario terriero che ha denunciato e fatto arrestare tutti e quattro perché in Messico può essere considerato illegale unirsi a una donna senza aver pattuito una dote.
Ma Rosa, che era una persona a conoscenza dei fatti e che non si era macchiata di nessun delitto, era anche incinta di 4 mesi al momento dell’arresto, e una volta nelle mani delle autorità, affinché firmasse una confessione in bianco, ha subito torture fisiche di tutti i generi, come lei stessa riporta, dalla simulazione della morte per soffocamento con buste di plastica in testa o con la testa immersa nell’acqua, a pesanti molestie sessuali ripetute, calci e pugni al ventre, un trattamento che ha causato la malattia e la deformità del suo primo figlio. “I dottori hanno dettto a mia madre che il bambino è nato malato per le torture che ho ricevuto quando mi hanno arrestato”, dichiara Rosa nella lettera. Natanael, nato con gravi danni cerebrali, per 4 anni ha vissuto immobile, senza nemmeno poter piegare la testa per vedere il suo corpo: nato in carcere senza poter aver accesso a cure di nessun tipo, il bimbo è stato affidato ai nonni, umilissimi contadini, ed è morto nel 2011 all’età di 4 anni.
Ora Rosa porta avanti la sua lotta per la libertà e per il riconoscimento dei diritti dei detenuti insieme alla sezione maschile del carcere N. 5 e al collettivo “Los solidarios de la Voz del Amate”, ma i funzionari governativi le fanno pressione perché abbandoni la lotta, minacciando di toglierle il piccolo Leonardo che vive con lei in prigione, e ora lei chiede aiuto al mondo.
Rosa è l’emblema di tutte le ingiustizie discriminatorie che un essere umano può subire: è donna, indigena, povera, detenuta e quindi senza diritti ma è anche madre, e per questo più esposta perché ricattabile attraverso il figlio. In questo senso Rosa è l’emblema di tutte le mamme che sono costrette a crescere i propri figli in una struttura carceraria dove i bambini rimangono, per lo più, fino ai 5 anni: in Messico, Argentina, in Afghanistan, in Salvador e in tutto il mondo, compresa l’Italia.
Donne che, per la maggior parte, sono in carcere per motivi legati al disagio sociale e alla povertà ma anche per motivi politici o reati inesistenti come quelli definiti “delitti morali” per i quali, nel carcere di Badam Bagh a Kabul in Afghanistan, scontano pene detentive metà delle 125 reculse, anche con figli piccoli o in gravidanza, accusate di essere scappate di casa, di aver avuto rapporti sessuali prima del matrimonio o perché adultere, costrette a vivere in una prigione che fino a due anni fa era mista e dove gli uomini le stupravano sistematicamente.
Donne e bambini privati dei più elementari diritti, come nella sezione femminile del centro penale di Quezaltepeque, nel Salvador, che ospita donne e minori di 5 anni, in cui, come descrive in un suo reportage la ong italiana Soleterre che da anni si occupa del problema, le mamme e i piccoli vivono “in due stanzucce dove l’aria è viziata e il calore è a tratti insopportabile, dove ci sono cibo, vestiti, oggetti personali in ogni angolo, dove i bambini dormono in amache fatte di asciugamani che vengono appese nel letto a castello, e con uno sgabuzzino dove esiste un WC dietro una tendina”. E così anche nel carcere femminile di Los Hornos in Argentina, che ospita mamme con bambini fino a 4 anni, o come a Juba, la capitale del Sud Sudan, dove i bambini in carcere con le mamme, minori fino anche a 7 anni, non hanno possibilità di un’educazione scolastica né di una alimentazione equilibrata, mentre chi è incinta è costretta a partorire tra le mura della prigione.
Prassi e consetudine che vanno contro il più elementare diritto alla crescita di ogni bambino e che, alla faccia della Convenzione internazionale dei Diritti del fanciullo, ritroviamo anche in Italia dove ancora oggi si trovano in carcere mediamente circa 70 bambini sotto i tre anni, dove le recluse incinte sono in media da 20 a 30 e dove una nuova legge, passata alla Camera e al Senato l’anno scorso, invece di risolvere il problema delle recidive e delle straniere, che continuano a transitare nelle carceri italiane con i loro bambini, ha semplicemente innalzato l’età del minore, che adesso potrà stare con la mamma in carcere fino al compimento dei 6 anni – e non più fino ai 3 – e con la possibilità di una detenzione attenuata delle madri e dei minori nelle Icam che, purtroppo, ancora devono essere costruite (ne esiste una soltanto a Milano).
Ricordando Leda Colombini, scomparsa poco tempo fa durante una visita a Regina Coeli, che ha lottato una vita per i diritti dei detenuti e per i diritti di questi bambini, l’associazione A Roma Insieme, la Casa Internazionale delle donne e le Madri per Roma Città Aperta, insieme alle altre associazioni che da sempre si occupano in Italia del problema, hanno deciso di riprendere la lotta affinché “nessuna madre e nessun bambino siano più dietro le sbarre”, e per l’occasione, insieme al Museo della Liberazione di via Tasso, le Madri per Roma Città Aperta, hanno presentato una lettera aperta alle ministre di Giustizia, Paola Severino, e degli Interni, Anna Maria Cancellieri, in cui si reclama che venga applicata anche in Italia la “Resolution on sociolabour reinsertion of female ex prisoners”, la risoluzione europea in materia di madri in carcere, in cui viene specificato a chiare lettere che “la detenzione per le mamme deve essere considerata come ultima soluzione” e che “è necessario promuovere misure alternative e sostitutive alla detenzione in particolare per donne con bambini, favorire i regimi detentivi aperti per le donne, e che ogni stato membro, dovrebbe promuovere ricerche, studi e riflessioni sui bisogni specifici delle donne detenute”.
In Italia le detenute sono tra il 4 e il 5% sull’intera popolazione carceraria, e per lo più sono accusate di reati legati a disagio sociale – quindi furti, tossicodipendenza, prostituzione – tra queste una piccola parte è in carcere con i propri figli o in attesa di partorire. La detenzione domiciliare o l’attivazione di norme eccezionali anche per quelle attualmente escluse da queste norme non può essere un problema di sicurezza così grave da non poter essere superato.
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