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C’è un libro, scritto da Vittorio Vezzetti, pediatra varesino, che prova a raccontare cosa vuol dire essere figli di genitori separati. E cosa vuol dire essere padre e madre e avere a che fare con tribunali, avvocati, assegni, tempi da concordare, soldi da calcolare, mentre si consuma una rottura totalizzante. Cento storie di giustizia familiare raccolte negli ultimi dieci anni in Italia, e intrecciate in un unico romanzo, Nel nome dei Figli, tra sociologia, giurisprudenza e scienza. Un libro che racconta la nascita di un’associazione di genitori per provare a costruire un presente e un futuro diverso per i figli. È uscito un anno fa, ora è alla sua seconda edizione.
Un caso editoriale con più di 8mila copie vendute, patrocini istituzionali, endorsement di svariati politici (tra cui due protagoniste delle riforme legislative come la senatrice del Pdl Alessandra Gallone e la senatrice dell’Api Emanuela Baio, che proprio in questi giorni sta regalando il testo ai membri della commissione bicamerale per l’Infanzia e della commissione Giustizia al Senato) malgrado la delicatezza della questione. Eppure – è la constatazione dell’autore – nessuna casa editrice ha voluto pubblicarlo. Certo, a tante è piaciuto. Tutte hanno intravisto il possibile “caso editoriale”. Ma nessuna, alla fine, ha accettato di pubblicare un libro che – ne è convinto Vezzetti – è “troppo scomodo” rispetto al conservatorismo che domina questi temi. «Intacca la prassi di un’intera società, del suo sistema, della sua giustizia e delle sue lobby», spiega il pediatra. «Ma vuole portare l’attenzione su un tema fondamentale, che ho cercato di affrontare in maniera inattaccabile».
Vezzetti, qual è il quadro che emerge dal suo libro?
Niente affatto consolante: gran parte dei provvedimenti e delle sentenze di separazione e affidamento sono motivati dalla consuetudine, dal luogo comune e dal pregiudizio. E non sono mancate segnalazioni di come, in più tribunali su e giù per l’Italia, siano stati o siano ancora in uso moduli prestampati e precompilati dove, sostanzialmente, si prevede che la separazione possa essere regolata esclusivamente con l’attribuzione del “domicilio prevalente” alla madre. Una situazione di fatto lontana da quanto previsto dalla legge 54 del 2006 sull’affidamento condiviso, per la quale, ad esempio, “anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli adolescenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Chi paga questa situazione?I cittadini. La politica si accorge del problema giustizia solo quando le è funzionale. Eppure abbiamo una forte conflittualità, con 25mila minori che ogni anno perdono contatto con un genitore. Con un morto ogni tre giorni – e la stima è per difetto – e tre feriti al giorno in corso di separazione. Ci sono interessi di lobby, come quella degli avvocati. Non generalizzo, perché esistono splendidi legali, ma un elemento del quale tenere conto è che certamente una situazione meno conflittuale farebbe meno comodo. E poi c’è una magistratura autoreferenziale, completamente tetragona agli impulsi che provengono dalla società e dal mondo scientifico.
Perché?
A causa di un sistema che esaspera le parti: il mondo della separazione diventa un corpo a corpo col compagno di ieri. In Svezia, invece, da tempo hanno superato questa problematica con un tasso separazione giudiziale inferiore all’1%.
Come?Il giudice emette in prima sentenza una decisione che prevede tempi paritetici tra papà e mamma. E così si riduce anche il contenzioso economico. Un risultato al quale sono giunti – in Svezia come in Polinesia o nella Guyana francese – per una questione di tempo e di processi. Prima si massacravano anche loro: il punto è che in Italia il divorzio esiste solo dal 1970. In Francia esiste dal 1789, in Svezia dal 1913. Quindi perché non imparare da chi l’iter l’ha già percorso perché ha cominciato prima?
Cosa accade in Italia?Normalmente esiste un genitore di serie A e uno di serie B. Per i bambini fino ai 12 anni il genitore di serie A è la mamma, dopo i 12 anni la partita è aperta anche con il padre. Secondo l’osservatorio Adiantum (Associazione di associazioni nazionali per la tutela dei minori, ndr) il riconoscimento dell’affido condiviso è “puramente nominale”. La realtà è quella dell’affidamento esclusivo, certificato dalle diciture “domicilio prevalente”, “genitore domiciliatario ” e “genitore non domiciliatario”, non presenti nella legge ma nella prassi introdotte nei provvedimenti dalla magistratura. Il dato andrebbe incrociato con tutte quelle sentenze che parlano di “domicilio prevalente”, condizione riconosciuta quasi esclusivamente alla mamma (Adiantum parla di 969 casi contro 20, con solo 31 casi di condizione paritaria ndr). In media, nei fatti, i bambini passano l’83% del tempo con la madre, il 17% con l’altro genitore. Su questo ho aneddoti assai esplicativi.
Per esempio?Il caso di un mio collega dentista. Stravedeva per i figli. Dopo qualche udienza si è accorto che non avrebbe ottenuto più del 10% del tempo con loro, e che non si sarebbe potuto andare oltre. Allora si è accordato “sottobanco” con la moglie per 25mila euro extra rispetto all’accordo formale. In cambio ha ottenuto quattro giorni in più al mese con i figli, un weekend in più e qualche pernottamento non “contrattualizzato”.
Quali sono i pro dell’affido condiviso?A differenza dei paesi anglosassoni, il sistema giudiziario italiano ha difficoltà a recepire le novità scientifiche. Ma la bigenitorialità, oggi, non è più solo un concetto giuridico o sociologico: è anche un concetto scientifico. E dimostra oggettivamente quanto siano sbagliate le prassi dei tribunali. La fila dei figli di separati si allunga, e una grande bufala è che l’affido alternato faccia male ai bambini: non esiste alcuna prova scientifica. Eppure è un argomento assai utilizzato dagli avvocati. Sono dei modelli, certo, ma non è scienza medica validata scientificamente. Anche il collegio nazionale degli Ordini degli psicologi si è appena pronunciato a favore dei tempi paritetici e dell”alternato.
E la non bigenitorialità a cosa porta?
In letteratura scientifica ci sono praticamente quasi solo studi sull’assenza e la carenza paterna, che viene correlata con la dispersione scolastica, il tabagismo, un minor sviluppo cognitivo, eventuali gravidanze indesiderate. Non abbiamo il dato sulla carenza materna, che potrebbe essere analogo. Bisognerebbe studiarlo andare in paesi che presentino una realtà speculare. Nell’Islam, ad esempio: nessuna donna, in Iran, chiede la separazione. Perderebbe la casa, l’onore. Un po’ quello che accade, con le dovute differenze, in Italia agli uomini. Ecco perché il 90-100% delle separazioni nei paesi islamici è chiesto dall’uomo. Ecco perché in Italia il 70% delle separazioni è chiesto dalle donne. E gli addebiti di colpa sono cinque volte superiori nei confronti del marito piuttosto che della moglie.
Altri effetti?Il fenomeno dell’alienazione genitoriale, dove un genitore riesce a plagiare il figlio contro l’altro genitore. Un fenomeno purtroppo diffuso ma “ignorato” dai tribunali: negli ultimi 10 anni le parole “alienazione genitoriale” compaiono solo in 14 provvedimenti. Magari il fenomeno viene citato nelle perizie tecniche dello psicologo o dello psichiatra, ma il giudice non ne prende atto.
E all’estero cosa succede?
Il modello assoluto è la Svezia, ma ci sono anche Belgio, Francia e Catalogna. Questi paesi, passati ai tempi paritetici, non hanno avuto necessità di tornare indietro. Non è un caso che in Italia il tasso di fertilità degli uomini dopo la separazione sia il più basso in assoluto, mentre la Francia registra il tasso più elevato. In tutti questi paesi sono state le donne a portare avanti la lotta per i tempi paritetici. Coinvolgendo maggiormente gli uomini nella gestione familiare, le donne hanno aperto per se stesse nuovi importanti spazi nella vita sociale e politica.
Il risultato?La donna svedese è presente al 50% nella gestione dei figli dopo il divorzio, ma anche al 50% nella vita politica, pubblica, sociale, lavorativa.
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