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Il tacco d’Italia vive un momento di splendore: tutti, oramai, sembrano averne scoperto la bellezza. Insieme all’ospitalità della gente, il biancore delle spiagge, le architetture naturali degli ulivi, la terra rossa, sapori e profumi, l’inquietudine movimentata del barocco e della taranta.
C’è un altro tacco, poi, che racconta il Salento come difficilmente lo vedrà il visitatore di passaggio: è “Il Tacco d’Italia”, guidato da una donna giovanissima, Marilù Mastrogiovanni, che lo ha potuto fondare, nel 2002, “investendo parte dei regali di nozze”. Un “mensile d’inchiesta” a diffusione regionale, l’unico in tutta la Puglia, editato da una cooperativa di tre giornalisti, che da quest’anno – a causa della crisi economica – “migrerà interamente sulla Rete”. Il quotidiano online oggi conta 20mila lettori al giorno.
“Non riceviamo finanziamenti pubblici”, spiega Marilù, “e viviamo dei fondi raccolti dalla pubblicità: non è facile di questi tempi ma regala grandi soddisfazioni essere sponsorizzati da grosse aziende salentine che credono in noi e che non temono ritorsioni”.
Già, perché questo foglio denuncia, da anni, speculazioni edilizie, abusivismo, casi di cattiva gestione di beni pubblici o di vera collusione con la criminalità organizzata. E ha il coraggio di raccontare l’altra faccia di una terra, dove la Sacra Corona Unita – la mafia salentina – ha messo radici profonde, ha assunto nuovi volti e si è saputa mimetizzare bene per creare attorno a sé consenso sociale. Tanto da lasciar credere di essere stata debellata.
Così non è, in realtà. Marilù (insieme alla sua “squadra”: una ventina di collaboratori in tutto, giovani e giovanissimi) lo ha documentato sull’ultimo numero di Narcomafie in un dossier che prova come la Scu sia vivissima e, purtroppo, goda di ottima salute. Ma, soprattutto, lo ha compreso bene dopo ogni minaccia, intimidazione, avvertimento che, puntualmente, ha dovuto subire ogni volta che le inchieste realizzate venivano rese pubbliche.
La sua storia, ora, è raccolta, insieme a quelle di Rosaria Capacchione e Marilena Natale, nell’e-book – fresco di pubblicazione – di Gerardo Adinolfi: “La donna che morse il cane. Storie di croniste minacciate”. La prefazione del testo è di Alberto Spampinato, direttore dell’osservatorio sui giornalisti minacciati “Ossigeno per l’Informazione” che ha curato un monitoraggio sui casi di minacce che hanno avuto come bersaglio cronisti e operatori dell’informazione, disegnando una sorta di mappa. Sulla base dei dati raccolti, la regione più colpita risulta la Campania, a seguire Lazio, Calabria, Sicilia e Lombardia (queste 5 regioni coprono il 71,7% delle minacce nel biennio 2011-2012). La suddivisione per area geografica è, invece, così composta: Nord 21,6% con 62 casi, Centro 23% con 66 casi di cui solo il Lazio incide per il 18,5% e infine Sud e Isole registrano il 55,4% pari a 159 casi.
Marilù ripercorre la propria storia, senza esitazioni, ma con la premessa che avrebbe raccontato tutto fino all’arrivo delle sue bimbe, “perché certe cose le hanno vissute anche loro, soprattutto la più grande, e non voglio ricordargliele”. Cita le inchieste condotte su alcuni casi di beni confiscati alla mafia e riassegnati alle amministrazioni comunali. Che però facevano finta di non averli: “Come il Comune di Galatina, in provincia di Lecce, a cui erano stati trasferiti beni confiscati al clan Coluccia ma, avendo paura di riutilizzarli, l’amministrazione affermava di non saperne nulla”. Peccato che la redazione del Tacco avesse nel frattempo documentato, fotografando tutto, lo stato di abbandono degli immobili, “in alcuni casi completamente vandalizzati”. Oppure come l’altra inchiesta in cui Mastrogiovanni e la sua redazione scoprirono che una casa confiscata al clan Giannelli e assegnata al Comune di Matino, fosse diventata in realtà, dimora del figlio del boss.
Le intimidazioni iniziano nel 2005: “Prima sono soft, poi via via si fanno sempre più minacciose”. Telefonate anonime che, puntuali, arrivano in redazione, ogni mese: “Cce sta faci?”, qualcuno chiede, aggressivo, in salentino (“cosa stai facendo?”). Poi, è “un’escalation di soprusi, violenze, effrazioni. Che prendono di mira soprattutto la sede della redazione. “Hanno iniziato a forzare la porta dell’ufficio, col piede di porco”, ricorda Marilù, “solo sfregi, segnali intimidatori”.
Fino al 2007: “Quell’anno”, prosegue, “abbiamo realizzato un servizio fotografico per testimoniare la nascita di un albergo da mille posti letto in quello che, poi, sarebbe diventato il Parco regionale di Ugento (all’epoca, era una zona Sic, sito di interesse comunitario)”. Sulla base delle perizie dei tecnici, necessarie per ottenere l’autorizzazione alla costruzione di quell’insediamento, risulta però che si tratta di una zona desertificata, “terreno adatto alla semina”, sostengono le carte, e non macchia mediterranea, come è nella realtà.
L’inchiesta punta i riflettori sull’operazione e fa rumore.
“Una sera sono entrati in ufficio”, racconta Marilù, “hanno rubato tutti i computer del giornale, tutti tranne un pc che mi hanno ”restituito” due giorni dopo, facendomelo trovare vicino la porta”. Significativamente: contiene documenti privi di importanza per l’inchiesta.
“Sono riusciti a introdursi, abbattendo completamente tutto il muro laterale”, aggiunge. Furto con scasso violento: il rumore è così forte che la pattuglia di carabinieri che sorveglia la redazione durante il giorno (Mastrogiovanni non ha la scorta), accorre. Tre i fermati (la banda al completo era composta da sei persone), tutti minorenni: vanno in prigione ma non fanno altri nomi. “Ero incinta della mia seconda figlia e per lo stress cu sono stata sottoposta, la mia gravidanza diventa a rischio: alla fine è andata bene!”. Le informazioni contenute nell’inchiesta, confermate per filo e per segno da una perizia successiva, sono utilizzate anche dalla finanza che fa intanto i suoi riscontri: le indagini sono ancora in corso (nel frattempo il magistrato ha chiesto una nuova perizia). Peccato che “i reati individuati, tra poco, cadranno in prescrizione”, conclude. Un muro di gomma.
Collegato alla speculazione edilizia nel parco regionale di Ugento, ad alcuni mesi dal furto in redazione, è l”assassinio per strada di un consigliere comunale di Ugento, che siede all’opposizione (nonchè consigliere provinciale di maggioranza) e che è anche una delle fonti più preziose del Tacco: “Grazie alla sua collaborazione abbiamo portato a termine importanti inchieste, tra cui quella sulla speculazione edilizia nel parco regionale di Ugento, un’altra su una grande centrale eolica tra gli uliveti secolari, un’altra ancora sulla più grande discarica del Salento, Burgesi, dove la Scu smaltiva rifiuti tossici e pericolosi (tutte aziende conducibili al clan Scarlino: il processo si è concluso con la condanna di tutti gli imputati!)”. La Procura accusa dell’omicidio i vicini di casa di Basile, nonno e nipote, in concorso: quest’ultimo, ancora minorenne, è poi assolto con formula piena. Il nonno è ancora sotto processo e tutto lascia credere che l’esito sarà lo stesso. Marilù ha scritto un libro sulla morte di Basile, in cui ricostruisce una serie di piste alternative a quelle seguite dalla Procura e che portano diritte alla mafia locale.
La storia prosegue, purtroppo, con il racconto di violenze gratuite, episodi che mettono in continuo stato di allarme questa donna, giovane mamma di due bambine, tornata nel Salento dopo dodici anni a Milano, per realizzare il proprio progetto, di vita e di lavoro: metter su famiglia con l’uomo che ama, e fare giornalismo d’inchiesta nella propria terra. “Non voglio che tu scriva cosa abbiamo sofferto: questi fatti coinvolgono anche la mia famiglia e preferisco che ne resti fuori”.
Ma esiste anche un clima “intimidatorio”, al netto delle singole minacce: “Purtroppo soffriamo un certo isolamento: da parte delle istituzioni, della politica, degli stessi colleghi”, risponde Mastrogiovanni, “ma possiamo anche contare su una rete di sostegno, fatta dagli inquirenti, dalle forze dell’ordine, da alcuni magistrati, da associazioni ambientaliste…”. E il mondo dell’informazione locale? Da quello, Marilù e la sua squadra si sentono “guardati con sospetto”: forse perché “facciamo una cosa che altri non fanno e non vogliono che si veda la differenza”, azzarda.
Fino a qualche anno fa, collaborava con il Nuovo Quotidiano di Lecce: il vecchio direttore le diceva sempre: “Quando scopri una cosa importante, è nostro dovere rilanciarla sul giornale: serve anche per far vedere che tu non sei pazza, non sei sola”. Da quando “è andato in pensione”, conclude, con il cambio di gestione, “le proposte che facevo non andavano più bene”. Finito tutto. “Ma non sono sola in realtà, ho la mia squadra”. Non è facile mettere a tacere chi ha il coraggio di dire la verità.
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