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Vero è che le donne sono poco rappresentate e che sono poche quelle presenti nelle cosiddette stanze dei bottoni. Se così non fosse stato, le “quote rosa” -strumento contraddittorio, ma male necessario- non sarebbero esistite per potere assicurare la presenza femminile nei Cda delle aziende, nei consigli e giunte delle pubbliche amministrazioni. In fondo un problema di “quote celesti” non è mai stato posto. Segno che lo squilibrio è evidente. Ma altrettanto vero è che quando una donna viene nominata al vertice di aziende pubbliche o di ministeri, la voglia di applaudire a prescindere, è forte. Irrefrenabile. Senza “se” e senza “ma”.
Insomma si dà per scontato, a priori, che una donna in quanto tale porti avanti le istanze di genere o molto più semplicemente faccia il proprio lavoro fuori dalla logica di potere tipicamente maschile. Solo i fatti potranno smentire o confermare. E così dopo la nomina di Anna Maria Tarantola alla presidenza della Rai che ha subito parlato di “nuovo valore e rappresentazione delle donne della e nella tivù pubblica” – e restiamo in attesa- sempre ai piani alti di viale Mazzini, un”altra donna è entrata nella stanza dei bottoni. Tinny. I più la conoscono con questo nomignolo datole dai genitori in omaggio all’eroina di una storia indiana. Col suo nome di battesimo, Eleonora, quasi nessuno la identifica; ma con il cognome, invece, sì. Andreatta.
È figlia di Beniamino, scomparso nel 2007; ex Dc, più volte ministro in vari governi e fondatore de “L’Ulivo” con Romano Prodi. Insomma nel Paese della meritocrazia inesistente o talvolta interpretativa, l’equazione è presto fatta. Eppure il suo curriculum è di tutto rispetto con esperienze all’estero. Per anni collaboratrice esterna con contratti a termine in casa Rai e per un periodo a Mediaset, da dove nel 1998 – direttore generale Pier Luigi Celli- l’allora capo di Rai Fiction Agostino Saccà la strappa al Biscione, facendole firmare il contratto a tempo indeterminato per nominarla quasi subito vice capostruttura di Rai Fiction.
Ergo, quando anche nella fiction si avrà la rappresentazione del Paese reale, fatto di italiane e italiani per nascita, per destino o scelta, insomma, quelli che la cronaca definisce stranieri e/o immigrati, allora non tratterrò, non tratterremo, la voglia irrefrenabile di applaudire per la nomina al vertice di una donna. Ma proprio, la nomina di Andreatta figlia, mi ha portato a ricordare un episodio passato quasi sottobanco, fagocitato presto da qualche articolo quando il fatto accadde e poi – come da italica prassi- presto dimenticato.
Nella sesta serie di “Don Matteo” (la fiction con Terence Hill versione prete) c’era una grossa novità. Ma i telespettatori non l’hanno potuta apprezzare fino alla fine delle puntate in onda su Raiuno. Nella serie entrava in scena una carabiniera. Non sappiamo se per la concomitante apertura dell’Arma alle donne – ecco il racconto del Paese reale- o per tenere testa alla fiction con carabinieri protagonisti sulle reti della concorrente Mediaset. Non è questo il punto. La sesta serie di “Don Matteo” aveva un valore aggiunto, un tratto multiculturale fuori dagli stereotipi che vengono sempre assegnati non solo alle donne, ma anche a chi non è italiano per nascita e ha la pelle di un colore diverso dagli autoctoni della Penisola. Jamila era la prima carabiniera nera che però è sparita dalla serie, pur avendo l’attrice scritturata firmato un contratto da coprotagonista per dieci mesi e l’Arma dato l’autorizzazione.
L’attrice in questione è Shukri Said: ex miss Somalia che vive e lavora in Italia da 20 anni, legata sentimentalmente a un italiano con il quale ha messo al mondo due figli e che sceglie di mettere nel cassetto la laurea per intraprendere la carriera diplomatica, per fermarsi a Roma dove si iscrive a una scuola di recitazione. Recita in teatro e in vari film. Fino al contratto per la serie “Don Matteo”.
Ma il personaggio di Jamila sparisce. Lei non ci sta e denuncia per mobbing la Rai e la Lux Vide, la società di produzione dei fratelli Bernabei. Perché? Il suo personaggio nessuno lo ha più visto dopo le prime puntate. “Quando sono stata chiamata dalla produzione, mi hanno detto che dovevo impersonare l’assistente del capitano interpretato da Simone Montedoro, con cui ho fatto il provino. La mia Jamila, una vera novità nella serie, doveva avere peso nello sviluppo della storia, ma non è andata così. All’inizio delle riprese ho chiesto invano il profilo del personaggio che, via via, è andato scomparendo. Sono stata ridotta a una comparsa, poi scomparsa del tutto”. E aggiunge Shukri: “Ero l’unico personaggio femminile nella caserma di don Matteo e il mio ruolo avrebbe potuto inserire nella serie problematiche nuove”.
Alla conferenza di presentazione della serie numero sei ci sono tutti, anche Shukri che però non viene mai ripresa, né citata e quando l’allora vice capostruttura di Rai Fiction oggi direttrice, Tinny Andreatta per l’appunto, enuncia le novità della sesta edizione di “Don Matteo”, di cosa parla? Dell’arrivo del nuovo maresciallo e di una suora (come si vede nel filmato qui sotto).
Ecco perché prima di spellarmi le mani per applaudire la nomina di una donna, aspetto e dobbiamo aspettarci di vederla all’opera. Di valutare come, se e dove interverrà nel cambiamento rispetto al solco della tradizione maschilista da una parte e puramente commerciale, o peggio ancora politica, dall’altra. Nel 2008, anno Domini della sesta edizione della fiction, si insediava il terzo governo Berlusconi. Quello appoggiato dalla Lega anti Roma ladrona – e la cronaca recente non gli dà ragione- e soprattutto anti migranti. Gli stranieri sui barconi respinti e Jamila con divisa da carabiniera nella televisione che forma per l’80 per cento l’opinione pubblica di questo Paese? No, non rendeva certo un buon servigio all’elettorato padano e neppure garantiva la tenuta del Governo. E allora la carabiniera nera sparisce senza troppe spiegazioni. Anche perché sempre in quello stesso anno Domini, sulla Rai si abbatte l’inchiesta della procura di Napoli, dalla quale si scopre il giro di raccomandazioni e segnalazioni dell’allora presidente del consiglio, Berlusconi, per piazzare attrici e starlette varie nelle serie televisive prodotte da viale Mazzini e che nelle intercettazioni rassicurava quello stesso direttore: (“Agostino, ti contraccambierò quando sarai imprenditore”). Tutto agli atti dell’inchiesta napoletana, trasferita poi a Roma, e per la quale nel 2009 la procura capitolina ha chiesto l’archiviazione. Oggi Saccà, con la sua Pepito produzioni ha in cantiere fiction sia per Rai, sia per Mediaset. Promessa da Cavaliere mantenuta, evidentemente.
Eleonora/Tinny era all’epoca la vice di Saccà e lo è rimasta anche con Del Noce del quale adesso ha preso il posto. Shukri Said invece non ha più lavorato in nessuna serie televisiva che sia della tivù pubblica o privata e da allora ha avuto difficoltà persino a trovare un agente. In televisione ci va come fondatrice e presidente dell’associazione “Migrare” (www.migrare.eu) che si occupa di fornire notizie e assistenza ai tanti nuovi e nuove italiane. Nel 2010 ha aderito alla staffetta con sciopero della fame degli stranieri che chiedevano all’allora ministro degli Interni, Maroni, la velocizzazione dell’iter burocratico per la concessione del permesso dei soggiorno. In quell’occasione Shukri finì in ospedale per un malore dovuto a un calo glicemico, ma su nessun giornale fece notizia: solo sullo spagnolo El Paìs, e in Italia, in un reportage sugli immigrati di seconda generazione realizzato da Silvia Resta per La7.
Storie di donne con percorsi diversi che fanno la differenza attraverso le proprie scelte: quella di Shukri di non tacere, quella della collega di raccontare una storia che non aveva trovato spazio nell’informazione di casa nostra, e poi quella di una vice capostruttura diventata oggi direttrice, dalla quale ci aspettiamo che faccia la differenza. Altrimenti niente applausi, anche se donna e al vertice.
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