È una “rompiscatole” piena di ironia: Ina Praetorius, teologa protestante svizzera, al Forum economico mondiale di Davos ha avuto una visione: ha immaginato Penelope che tesseva e disfaceva la sua tela sotto gli occhi di “banchieri spocchiosi e militanti del movimento antiglobale in stato d’ansia”. Perché è urgente e indispensabile ripensare l’economia in un modo nuovo. In particolare in un mercato in cui lo scambio è ormai solo fra denaro e denaro senza alcuna relazione con i bisogni reali. Se nell’attuale economia di mercato globale circa 25mila persone muoiono ogni giorno di fame, è evidente che il mercato come priorità assoluta dell’economia è destinato a fallire. Certo, si può rimuovere il problema quando si vive nelle roccaforti del potere lontano dagli slums. Ma uragani, ondate di caldo, inondazioni e nubi tossiche arrivano, alle volte, anche nelle ville dei più ricchi…
Così Ina Praetorius, autrice di saggi, docente di etica a Friburgo, casalinga e madre di una figlia, in Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale, cerca di rimettere le cose al loro posto concependo il mondo come ambiente domestico. A partire proprio dalla radice greca di economia, oikos, ovvero la casa con i suoi abitanti, 7 miliardi di esseri umani, tutti ugualmente bisognosi e interdipendenti.
Ina Praetorius non è solo una teorica: ha guidato un movimento per salvare l’insegnamento dell’economia domestica nelle scuole svizzere, in nome di quella competenza dell’esserci che sembra mancare drammaticamente a chi governa il pianeta terra; nel 2013 ha fatto la campagna, sempre in Svizzera, per un reddito di base incondizionato, partecipando al Comitato nazionale che ha raccolto 120mila firme, sufficienti a indire il referendum. Da vera “rompiscatole”, è poi entrata in polemica con gli organizzatori perché durante un dibattito la tivù svizzera aveva concesso 72 minuti di intervento agli uomini e 3 alle donne.
Ina Praetorius, che nel 2012 ha pubblicato un prezioso libriccino intitolato Abc della buona vita, è stata a Milano il 27 gennaio, ospite dell’Agorà del lavoro, : per capire come il pensiero radicale di Ina Praetorius possa modificare la realtà di tutti i giorni senza restare soltanto un’utopia, le abbiamo fatto qualche domanda.
Ci stiamo inabissando tutte/i in una crisi infinita. Come pensa lei che si possa rivoluzionare l’economia ripensando il mondo come ambiente domestico?«Le crisi non sono una cosa piacevole. Ma sono inevitabili se ci si rifiuta di pensare a tutta l’economia. L’economia infatti, è azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro, per soddisfare i bisogni umani. Quindi non comprende solo il mercato e lo Stato, ma anche il lavoro di cura non retribuito. Quest’ultimo, come è stato dimostrato, è addirittura il settore maggiore dell’economia.
Oggi finalmente si comincia a vedere che non esiste una “mano invisibile del mercato” – quasi divina – che regola tutto al meglio. Sono invece innumerevoli mani, soprattutto femminili, ad aver permesso per molto tempo il funzionamento del mercato presunto “libero”
Queste mani numerose ora diventano visibili, e ciò comporta degli spostamenti. In primis diventa evidente ciò che già Aristotele sapeva: quando il denaro si separa dal compito principale dell’economia, cioè dalla soddisfazione dei bisogni, diventa incontrollabile e distruttivo. Per questo motivo non dovremmo fidarci troppo dei soldi, ma piuttosto delle relazioni affidabili. E dovremmo fermarci e ripensare tutto da capo: di che cosa abbiamo veramente bisogno? Quali cose e attività sono sensate, di quali possiamo fare a meno? Qual è il senso di tutto?» Perché la chiama economia della natalità? «È partendo dai “nuovi arrivati” che si capisce meglio che il mercato non può essere il centro dell’agire economico. Che cosa se ne dovrebbe fare, un neonato, del denaro e del mercato? Chi di noi sarebbe sopravvissuto, da poppante, senza il lavoro non pagato, forse impagabile, di un essere umano quasi sicuramente di sesso femminile? Che cosa sarebbe il mercato senza persone sempre nuove, e sempre di nuovo bisognose?
Noi adulti, infatti, siamo tutti ex neonati, cioè dipendenti dalla cura fino all’ultimo respiro. Nello stesso tempo, siamo liberi di nutrire ciò che ci nutre. L’economia della natalità vede tutti gli esseri umani liberi nella dipendenza. Secondo questa idea, produrre beni, offrire servizi ecc. significa: restituire il dono che abbiamo ricevuto all’inizio della vita e che continuiamo a ricevere.
Certo, esiste anche il livello strumentale: per esempio, un’imprenditrice deve fare profitto, i soldi fino ad un certo punto sono molto comodi. Ma questo è un fatto secondario. Il problema di questo ordine in via di estinzione è che mette al centro le cose secondarie, rendendo invisibili le cose principali: lo stato di bisogno di tutti, il senso della vita, la vulnerabilità del cosmo. L’economia della natalità rimette ordine nelle priorità a partire dall’inizio: l’essere nati».
Come si fa a tradurre nella vita quotidiana questa visione del mondo? Quali forme di impegno ritiene possibili oggi? «Ci sono tante possibilità di agire. Io personalmente mi concentro sul lavoro teorico, cioè trovare/inventare parole nuove, nominare la realtà diversamente rispetto a quanto abbiamo imparato. E poi usare queste parole e visioni diverse pubblicamente e tenacemente. Se molte persone fanno così siamo già sulla buona strada. È molto importante, ad esempio, parlare pubblicamente e in modo esplicito della “dipendenza di tutti dal lavoro di cura”, invece dei vuoti dibattiti sul “forte” e sul “debole”.
Poi ci sono azioni creative ormai praticate da tempo: Urban Gardening (orti in città), cooperative di vendita diretta di prodotti agricoli; nuove forme di convivenza, sperimentazioni con valuta alternativa, reddito di base, ecc. Chi frequenta i social media e si guarda intorno, capisce subito dove ci sono delle iniziative, dove si può partecipare…».
(traduzione dal tedesco di Traudel Sattler)