Marilù aveva detto la verità

Le richieste del querelante sono infondate e vanno rigettate perché la giornalista aveva scritto la verità. L''editore Paolo Pagliaro l'aveva accusata di diffamazione

Marilù aveva detto la verità
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23 Gennaio 2017 - 08.43


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Le richieste del querelante sono infondate e vanno rigettate perché la giornalista aveva scritto la verità. Queste parole e quasi anni 12 anni d’attesa hanno finalmente liberato Marilù Mastrogiovanni da un incubo.

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Che la giornalista avesse detto il vero lo ha stabilito il giudice Antonino Ieremonti del Tribunale di Lecce pochi giorni fa, nella sentenza civile di primo grado dopo oltre 11 anni di contenzioso protrattosi oltre la causa penale collegata, che era invece stata archiviata dopo nove anni e due gradi di giudizio. Il giudice Ieremonti, escludendo “qualsiasi carattere diffamatorio” nelle notizie pubblicate, ha quindi rigettato anche la richiesta di risarcimento, stabilendo invece la compensazione tra le parti delle spese di lite.

Tutto cominciò tra fine 2005 e inizi del 2006 con la denuncia per diffamazione dell”editore Paolo Pagliaro, legale rappresentante di Tele Rama e Radio Rama, contro la collega Mastrogiovanni, direttrice responsabile de “Il tacco d”Italia”. Con in più una richiesta di risarcimento danni di complessivi 260mila euro. La giornalista aveva pubblicato nel dicembre 2005 l’inchiesta “Pagliaro, l’impero virtuale” sulla sua testata. “Sua” perché ne è anche la fondatrice.

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Di cosa trattava l’inchiesta? “Denunciavo, citando le fonti documentali, le gravi irregolarità e illiceità delle emittenti di Paolo Pagliaro, Telerama e RTS. Che tuttavia andavano regolarmente in onda ricevendo diversi milioni di euro di finanziamenti pubblici. Mentre non avrebbero avuto diritto ai soldi dello Stato.”

Racconta Marilù Mastrogiovanni: “Nell’inchiesta denunciavo, tra i tanti fatti rilevanti, la condizione di ricatto sotto cui lavoravano colleghe e colleghi, in ambienti non a norma, non regolarmente retribuiti né inquadrati sulla base dei vigenti contratti nazionali di categoria. Non facevo mistero delle mie fonti, essendo tutte documentali. Nonostante questo l’editore mi ha querelato in sede civile e penale e non una volta sola, ma più volte. Inoltre mi inviava lettere di diffida perché considerava il mio diritto di cronaca un atto persecutorio nei suoi confronti”.

Con che esito? “Tutte le querele e integrazioni di querela sono state archiviate. Il rinvio a giudizio con ben 12 capi d’imputazione chiesto dal pm Antonio De Donno, oggi procuratore aggiunto a Lecce, si è sì risolto con la mia piena assoluzione, ma ci sono voluti 9 anni di processo penale e 12 di civile. Sono stata difesa gratuitamente da due grandi avvocati e amici del foro di Brindisi, Roberto Fusco e Massimo Manfreda, che hanno scelto di difendere, attraverso di me, la libertà di stampa in quanto diritto fondamentale e costituzionalmente garantito”.

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Soddisfatto anche il difensore, Roberto Fusco: “La sentenza ribadisce la bontà del lavoro giornalistico d’inchiesta di Mastrogiovanni: tutto vero e documentalmente provato. L’amarezza, anche come avvocato, risiede nell’essere impotenti di fronte ai tempi estenuanti della giustizia. Questo per un giornalista significa essere oggettivamente sottoposto ad una spada di Damocle che mette in discussione la buona fede e l’autorevolezza del suo lavoro”. Da qui l’urgenza d’una legge che argini le querele temerarie, perché – ricorda Mastrogiovanni – “utilizzate in realtà non a tutela d’un diritto, ma come strumento di pressione verso il giornalista, per intimidirlo e frenarne il lavoro”. Per questo è tra le prime firmatarie, con altre colleghe, dell’appello della CPO FNSI al Parlamento perché approvi la relativa proposta di legge. Ed è inoltre impegnata, con Giulia, in azioni di denuncia e sensibilizzazione contro discriminazioni e violenza di genere, anche sui luoghi di lavoro. Infine le intimidazioni e le minacce, anche da parte della criminalità organizzata, da lei subite in questi anni sono state censite e analizzate da Ossigeno per l’Informazione, l’osservatorio diretto da Alberto Spampinato.

La Sentenza n. 150/2017 della seconda sezione civile del tribunale di Lecce

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