Sarà che pay-gap-gender è anche difficile da dire, sarà che la dizione in italiano, “differenze retributive uomo/donna”, sa di burocratico, e va a finire che le notizie non girano. E allora, diciamolo così com’è: perché le donne continuano a guadagnare di meno? Perché quando l’Europa si muove e laboriosamente produce 17 pagine di analisi e note e indicazioni, elencando punto per punto tutto quello che bisogna fare, nessuno ne parla?
Fatto sta che c’è questo bel documento del Consiglio dell’Unione europea, approvato a fine maggio, in cui si dice che “le politiche in materia di parità di genere sono un elemento motore della crescita intelligente, sostenibile e inclusiva e costituiscono un prerequisito indispensabile per promuovere prosperità, competitività e occupazione nonché per favorire inclusività e coesione sociale”. Lo sostengono in realtà molti studiosi, ma ribadito nero su bianco è importante, non fosse che poche righe dopo si registra che però, secondo Eurostat, “la retribuzione oraria lorda media delle donne è inferiore a quella degli uomini e il divario retributivo di genere nell’UE si attesta tuttora a circa il 16 %” (e segnalando poi addirittura che l’indicatore relativo al divario retributivo globale tra donne e uomini registra un divario di genere pari a circa il 40% nell’UE-28). Come dire: sarebbe bello ma proprio non è.
E l’analisi che viene fatta è puntualissima, vale la pena citarla: “Il divario retributivo di genere è il risultato di una vasta gamma di squilibri di genere presenti sul mercato del lavoro. Non è causato da differenze nei livelli di istruzione, tant’è che nell’Ue le donne superano di fatto gli uomini in termini di successo scolastico, quanto piuttosto da fattori quali la segregazione di genere nell’istruzione, nella formazione e nell’occupazione, la segregazione del mercato del lavoro, lo squilibrio di genere nelle posizioni dirigenziali e decisionali, la maggiore frequenza del lavoro a tempo parziale per le donne e le loro più lunghe e frequenti interruzioni di carriera dovute a una ripartizione ineguale delle responsabilità domestiche, familiari e di assistenza tra donne e uomini, nonché la sottovalutazione del lavoro svolto dalle donne. Possono avere un peso anche i fattori organizzativi, come gli orari di lavoro prolungati e le aspettative di presenza fisica e disponibilità al di fuori dell’orario normale. Tutti i fattori sopracitati derivano dalla persistenza di pregiudizi di genere inconsci e dalla discriminazione, compresa la discriminazione salariale, che riflettono la mancanza di una corretta applicazione del principio della parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”.
Morale, il Consiglio dell’Unione europea invita gli Stati membri a darsi una mossa. Un elenco lunghissimo di cose da fare, che sembrano tutte ovvie, ma ovvie non sono, per togliere di mezzo gli ostacoli ad una parità non di fatica (quella le donne la fanno) ma di stipendio. E sembra di leggere in quell’elenco tutti i mali dell’Italia, le cose che il movimento delle donne e il sindacato ripetono alla noia. A partire da quell’invito: “Adottare misure tese ad agevolare la conciliazione tra lavoro, famiglia e vita privata sia per le donne che per gli uomini, incoraggiando così la ripartizione equa delle responsabilità di assistenza e delle mansioni domestiche tra donne e uomini”.
E già: i figli, i genitori, i nonni, la mancanza di servizi, il “lavoro di cura” che si scarica tutto sulle donne. È di qui che bisogna ripartire… E lo dice anche l’Europa.