L’importante non è vincere, ma partecipare è una delle frasi più famose riferite allo sport. Forse è ancora più famosa del motto ufficiale delle Olimpiadi, nato nel 1894 assieme al Cio (il Comitato internazionale olimpico), Citius! Altius! Fortius!. Erroneamente attribuita al barone De Coubertin, l’uomo che riteneva la partecipazione femminile olimpica come «la cosa più antiestetica che gli occhi umani potessero contemplare», la frase l’importante non è vincere, ma partecipare non indica chi abbia il diritto di gareggiare e chi no, ma dà per scontato che lo possano fare tuttǝ.
Eppure non è così. È un dato di fatto che le persone transgender non siano mai state completamente libere di partecipare alle Olimpiadi. Fino al 2003 questa possibilità era considerata un forte tabù, mentre da quella data in poi si iniziò a intravedere uno spiraglio di accesso molto piccolo e da cui fuoriuscivano veri e propri stigma sociali.
Le linee guida del Cio, infatti, prevedevano esclusivamente l’intervento chirurgico seguito da almeno due anni di terapia ormonale, che servivano da certificazione per dimostrare di essere atleta uomo o donna. Considerati degli obblighi troppo vincolanti e discriminanti, dal 2003 al 2016 non ci è effettivamente noto nessunǝ atleta transgender che abbia gareggiato ai Giochi Olimpici invernali o estivi.
Le nuove decisioni del Cio e i parametri
Da novembre 2015, con le ultime linee guida che spiegano come sia «necessario garantire, per quanto possibile, che gli atleti transessuali non siano esclusi dalla possibilità di partecipare alle gare», il Cio ha effettuato delle modifiche importanti. Innanzitutto ha abolito l’obbligo dell’intervento chirurgico di transizione, richiedendo alle atlete biologicamente nate maschio che si identificano come donna (le MtF, male to female), la dimostrazione di un livello di testosterone inferiore a 10 nanomoli per litro (nmol/L) per almeno un anno prima della competizione. Mentre gli atleti FtM (female to male) possono competere senza restrizioni. Dimostrare un tasso inferiore di testosterone per chi ne produce naturalmente di più, significa assumere dei farmaci consentiti che ne abbassino il livello. Anche in questo caso la vicenda ha sollevato dubbi e polemiche, poiché da un lato si sostiene che l’assunzione di farmaci possa mettere a rischio la salute delle atlete transgender, mentre dall’altro si ritiene che quegli stessi farmaci non creino parità ma che mantengano comunque un vantaggio sulle altre atlete cisgender (coloro cui sessualità e identità di genere coincidono). Nonostante le direttive, ogni federazione sta apportando scelte differenti: il rugby vuole impedirne la partecipazione, mentre nel ciclismo l’atleta transgender Rachel McKinnon ha conquistato la medaglia d’oro.
La ricerca di Joanna Harper e il World Athletics
Nel 2015, un pool di esperti capitanato dalla dottoressa Joanna Harper, ex atleta e transgender dal 2004, ha pubblicato il primo studio sulle prestazioni delle atlete transgender. La Harper ha infatti scoperto come le atlete che hanno ricevuto un trattamento farmacologico per abbassare i livelli di testosterone, non abbiano ottenuto sul campo e in varie gare dei risultati migliori contro le loro coetanee, rispetto a quanto avevano fatto in precedenza contro i corridori maschi, diventando quindi più lente. Una ricerca basata principalmente sulla corsa dove, nel 2019, il World Athletics (l’Atletica leggera mondiale, nota anche come IAAF) ha deciso di modificare il limite di testosterone a 5 nmol/L, allineandolo anche alle normative delle atlete intersessuali o Dsd (Disorders of sex development), ovvero le persone con caratteristiche anatomiche e fisiologiche che appartengono a entrambi i sessi e che possono riguardare genitali, cromosomi ecc. Queste ultime sono infatti costrette a prendere farmaci perché considerate biologicamente maschi (un esempio è il caso di Caster Semenya, l’atleta sudafricana che soffre di iperandrogenismo).
L’azzurra Valentina Petrillo
A settembre 2020, Valentina Petrillo è diventata la prima atleta transgender a partecipare ad un campionato italiano nella categoria femminile, categoria cui sente di appartenere. Ai campionati paralimpici di atletica leggera di Jesolo e Ancona, la velocista ipovedente T12 ha conquistato tre ori: nei 100, 200 e 400 metri. Nel 2019 ha infatti iniziato il trattamento ormonale rientrando perfettamente nei parametri del World Athletics, un percorso non facile ma che ha dato i suoi frutti: «Il giorno che presi la prima compressa già mi sentivo più donna e feci un tempo di 19.40’ sui 150 metri, un ottimo risultato – ha spiegato l’atleta in un’intervista rilasciata al magazine per la disabilità SuperAbile INAIL. Ma da quel momento è cominciato un declino inesorabile e le prestazioni sono calate. Non è solo una questione di velocità, ma anche di capacità di recupero e di metabolismo.
Siccome sono la prima atleta di questo livello che sperimenta la transizione di genere, nessuno veramente sa che cosa accadrà nel tempo. A livello psicologico sto meglio, ma a livello sportivo sto ancora cercando il mio equilibrio. Una cosa è certa però: meglio essere una donna più lenta ma felice che un uomo più veloce ma triste». La sua prossima tappa sarà il weekend del 15-17 aprile a Jesolo dove si terrà il Meeting internazionale paralimpico, l’occasione in cui i tempi saranno inseriti nei ranking mondiali e validi per il pass di Tokyo. La Petrillo, in caso di vittoria, si ritroverebbe fra le quattro atlete transgender che potrebbero competere alle Olimpiadi: la rider statunitense Bmx freestyle Chelsea Wolfe, la pallavolista brasiliana Tifanny Abreu e la sollevatrice di pesi neozelandese Laurel Hubbard.
Nel frattempo, sulla pagina ufficiale delle Olimpiadi di Tokyo (che si terranno dal 23 luglio all’8 agosto) è stato annunciato per la prima volta il raggiungimento di un equilibrio di genere tra atleti e atlete: il 49% infatti sarà donna (il 40.5% alle paralimpiadi), per cui i 206 Comitati nazionali potrebbero garantire un rappresentante maschile e una femminile nelle squadre olimpiche.