di Asmae Dachan
La vicenda della giovane Saman, la ragazza pakistana scomparsa da settimane, che si teme sia stata uccisa dalla sua stessa famiglia per essersi opposta a un matrimonio combinato, riapre anche in Italia la questione dei diritti delle donne. Non sono poche, purtroppo, le realtà in cui resistono forme di sottocultura patriarcali e misogine, in cui regna una specie di legge del branco, dove i maschi decidono della vita e della morte dei membri più fragili della comunità, dove gli uomini vittimizzano i bambini e le donne.
Il mondo dell’attivismo e della politica ha condotto negli anni numerose lotte, che hanno portato a sancire leggi e convenzioni che vietano i matrimoni combinati e quelli precoci, punendo i femminicidi, ma è purtroppo evidente che le leggi, senza una riforma culturale dal basso, che venga interiorizzata da tutti, non bastano. Si teme che Saman sia l’ennesima vittima dell’odio misogino, mentre si continua a cercare il suo corpo vilipeso senza vita. Uccisa da quella che dovrebbe essere la sua stessa famiglia, che si è trasformata, per impedirle di vivere la sua vita, in una sorta di covo criminale, con persone complici e omertose. Non meritano di essere chiamati padri e zii, non meritano di chiamarsi umani coloro che decidono a tavolino un omicidio per punire una famigliare desiderosa di vivere in libertà.
E non esistono attenuanti, motivazioni né pretesti di alcun genere che li giustifichino: in Italia la legge vieta i matrimoni forzati e gli omicidi, ed essendo in Italia la famiglia deve rispettare la Legge italiana, ma anche nella loro terra d’origine, in Pakistan la legge punisce questi crimini. Vile anche il pretesto religioso, perché l’islam vieta i matrimoni imposti e i femminicidi. Per chi crede davvero, la vita è un dono di Dio e in quanto tale è a Dio che appartiene ed è solo Dio che può darla e toglierla. Questo Dio tirato in causa a sproposito, bestemmiato con queste azioni criminali, esiste solo nelle menti perverse di simili branchi. Le ragazze e le donne che vivono in certi contesti del mondo arabo, africano ed asiatico, soprattutto nelle zone rurali, spesso devono affrontare un nemico che sfugge al controllo di ogni legge, quello della mentalità tribale-patriarcale che ancora sussiste e che è dura da sradicale.
Saman sarebbe stata uccisa “per non ferire l’onore della famiglia”, quasi a dire “meglio morta, che libera”. Invece di accogliere e accettare una figlia vissuta in un contesto diverso da quello di origine della famiglia, invece di rispettarne la volontà e provare ad essere felici per lei, i famigliari si sarebbero trovati e avrebbero discusso e organizzato il suo omicidio. Un femminicidio pianificato come se fosse un piano di guerra, una guerra dichiarata a una giovane donna capace di dire no. Fa male al cuore, è inimmaginabile pensare a cosa sia successo, al fatto che nessuno abbia avuto un ripensamento, a come abbia vissuto quella giovane che si affacciava alla vita da donna libera. Si sarebbe mai aspettata che la sua casa diventasse il suo stesso inferno? Avrà guardato in faccia il suo carnefice? Avrà sofferto? E sua madre? Le altre donne della famiglia? A volte, purtroppo, le donne sono complici di questi sistemi.
Di cosiddetti delitti d’onore è piena la cronaca, la storia e la letteratura. Anni fa lessi “L’esclusa”, di Luigi Pirandello e provai una gran pena per Marta. Non avrei mai pensato a quante Marta, donne accusate e punite da società misogine e moraliste, avrei incontrato nel mio lavoro di cronista. Persino nella terra delle mie origini, dove per la prima volta ho toccato con mano la brutalità di simili contesti. La quasi certa uccisione della povera Saman mi ha riportato alla mente un dialogo che ebbi con un’anziana, che mi ferì e mi spaventò per quello che diceva.
Era l’agosto 2013, mi trovavo nella periferia di Aleppo tra i dimenticati del conflitto. Raccoglievo le loro testimonianze e mi resi conto di quanto una guerra possa far arretrare le già sofferte conquiste sui diritti umani. “La morte sarebbe stata una misericordia. Ora che cosa dirà di lei la gente, come la guarderanno?”. Rimasi incredula e ferita di fronte a queste parole. Speravo di aver capito male, pensavo fosse colpa della mia lingua araba un po’ fuori uso, invece avevo capito bene.
A pronunciare quelle frasi taglienti fu un’anziana donna siriana, riferendosi al destino di una giovane vittima di stupro che avevo appena intervistato. Intorno a noi si stavano consumando gli orrori della guerra, i bombardamenti, gli spari, gli attentati, le fughe di massa, ma in quel campo tendato che accoglieva orfani, vedove e altri civili, c’era un’altra guerra in corso. Una guerra in cui l’attore principale era ed è ancora una mentalità patriarcale, misogina, per molti versi malata, che criminalizza le vittime e vorrebbe renderle mute e invisibili. Una guerra che si combatte sul corpo e sulla mente delle donne, in cui un distorto e perverso senso dell’onore spinge a guardare alle vittime con biasimo, non con empatia. Nessuno parla mai delle colpe degli uomini. Mai. “Sarebbe meglio se le ragazze come lei non dicessero nulla, se si fingessero vedove, specie se sono rimaste incinta”. “Nessuno se le sposerà e le loro famiglie vengono emarginate, perché è come se avessero una macchia”. “Cosa ne sarà poi di tutti quei bambini abbandonati dalle madri che non li volevano?”.
Più sentivo parlare quell’anziana, che nel frattempo aveva messo anche me sulla lista nera perché divorziata, più provavo pena per quelle ragazze, doppiamente vittime e oltretutto costrette a vivere in quelle tende fatiscenti. Dentro di me saliva un senso di impotenza e incredulità che mi paralizzava. Qualcuno ha idea della reale tragedia che si è abbattuta sulle giovani barbaramente arrestate e poi abusate dagli uomini del regime siriano, come punizione per aver osato manifestare e chiedere libertà, e sulle giovani siriane, curde, yazide che sono state sequestrate nelle loro stesse case dai terroristi integralisti, che ne avevano fatto schiave sessuali? Ci siamo mai fermati a pensare alle bambine di 12 anni costrette a sposarsi, a subire cioè stupri “legalizzati”, per sfuggire alla miseria? Tutto ciò è accaduto e ancora accade sotto un cielo da cui per dieci anni sono piovute bombe di ogni tipo.
Guerre nelle guerre, guerre in cui gli uomini decidono e combattono, commettono crimini e dettano legge, e le donne subiscono. È una parte del racconto dei conflitti, questa, che spesso passa in secondo piano perché sembra interessare meno. Fanno notizia gli schieramenti sul campo, le conquiste o le perdite militari, le alleanze, ma il vissuto dei civili viene raccontato in modo generico, elencando morti, sfollati e profughi. Ci sono però vittime che forse muoiono nell’anima, ma restano vive e spesso per loro sopravvivere a un abuso è l’inizio di un nuovo incubo, quello che le vede da sole ad affrontare gli sguardi e gli atteggiamenti ostili degli altri, ma anche delle altre.
Come nel caso dell’anziana che difendeva con convinzione le sue idee, continuando a ripetere che era una “sciocchezza aspettare che le ragazze avessero la maggiore età per scegliere chi sposare e se sposarsi” e che “a volte la morte è una sitra”. “Sitra”, questa parola in uso nell’arabo-siriano a cui ho faticato a trovare una vera traduzione. Copertura, protezione, riparazione, difesa? No. Ho fatto appello a tutte le traduzioni possibili per capire come la morte di una vittima potesse rappresentare per la vittima stessa una “sitra”, e l’unico risultato che ho ottenuto è comunque un ossimoro, un’ulteriore offesa alla vittima.
Quel giorno non nascosi all’anziana la mia contrarietà a quanto affermava, e altre donne, specie le più giovani, erano felici che non avessi paura di dire ciò che anche loro pensavano, ma la signora mi ha liquidato dicendo che avendo vissuto in Occidente, non avrei mai potuto capire. Eppure, non era di certo una donna del Daesh, ma una semplice donna di campagna chiusa in una mentalità che continuo a definire malata. Su una cosa aveva ragione: non ho capito e non capirò mai come possa una donna, e lei certamente non rappresenta un caso isolato, essere così spietata con altre donne. Dopo quel primo, sconvolgente incontro, mi sono trovata più volte faccia a faccia con donne abusate. Le ho guardate negli occhi, ho raccolto le loro testimonianze, le ho osservate mentre nella loro mente riaffioravano ricordi, mentre aprivano e chiudevano i pugni, mentre si asciugavano le lacrime.
In nessuna di loro trovava spazio quella “sitra” sbandierata dall’anziana moralizzatrice. Le loro parole erano sempre piene di dolore, sofferenza, ma anche voglia di giustizia e riscatto. A volte, finite le interviste, mi sentivo distrutta, come se mi fosse passato sopra un treno, arrabbiata col mondo, con gli uomini e con le donne e con certe mentalità incomprensibili. Mi sono chiesta come si faccia, di fronte a simili tragedie, a trovare la forza di reagire. Ho posto questa domanda anche a uno psicologo che assiste bambine vittime di matrimoni forzati e donne vittime di violenza e dopo aver raccolto la sua testimonianza da professionista, le lacrime che sono scese sul suo viso hanno completato il quadro. C’è un altro aspetto poi, che non va dimenticato. A volte gli abusi hanno anche altre conseguenze, come le gravidanze. Alcune delle donne che ho intervistato hanno abbandonato in orfanotrofio i figli nati dagli stupri, altre li hanno accolti come figli loro, tutti loro, cancellando dalla memoria il ricordo dei loro carnefici che non meritano di essere chiamati padri. Oltre al trauma personale, queste donne e i loro figli spesso devono affrontare anche il trauma di fronteggiare una società ostile. Ho incontrato anche madri di figlie morte suicide. Una di loro mi disse che “sua figlia aveva scelto la via della libertà per non restare schiava di quell’abuso”.
Questi sono i traumi di guerra che mi porto dentro da allora. Perché non è vero che i giornalisti hanno il pelo sullo stomaco. È come se ogni testimonianza raccolta sia una cicatrice che brucia. Un misto di pietas, rabbia e interrogativi a cui non esistono risposte. Mi chiedo come mai, con uomini che vivono come vogliono e che non devono rendere conto a nessuno, persino di fronte alle tragedie di guerre feroci e mai finite, ancora si dia tanta importanza all’integrità di una membrana, e non alla vita stessa della donna. La chiamano verginità, e per questa sono disposti a uccidere. C’è qualcosa di ancestralmente sbagliato, perverso, corrotto e malato in tutto questo. E pensare che dovremmo essere la specie vivente più intelligente e progredita.
Se è vero che le donne rappresentano circa la metà della popolazione del mondo, immaginiamo che cosa significhi, ancora oggi, che in molte società le donne vengono discriminate, limitate nella loro libertà, private dei loro diritti. È per questo che è fondamentale tenere più che mai aperti i canali di dialogo e sostegno alle reti femminili di attiviste e alle organizzazioni che si occupano di diritti umani, troppo spesso nel mirino di regimi liberticidi e sistemi corrotti. Invece di impegnarsi in campagne di odio, che alimentano pregiudizi e rischiano di isolare ulteriormente le donne, bisognerebbe unire le forze e non lasciare sole le donne di nessun contesto, senza cedere mai al ricatto di tacere sulle violazioni dei diritti per mantenere buoni rapporti economici o strategici. Lo stesso dicasi per le comunità migranti che vivono in contesti dove invece i diritti umani sono garantiti. Non bisogna lasciare che, cercando di fuggire alla legge, queste commettano nell’omertà dei rispettivi gruppi etnici o religiosi, pratiche barbare come l’infibulazione, i matrimoni forzati e ogni altra forma di abuso. Il valore della legalità deve essere trasmesso, fatto assimilare, condiviso come fondamento per il vivere civile. Non possiamo sempre piangere dopo che le tragedie si sono già consumate.