Su wikipedia Italia Cristina Calderón è definita scrittrice, etnografa e lessicografa cilena. Nonché, dal 2009, classificata “tesoro umano vivente” dall’Unesco, riconoscimento che di solito assegna la cultura dominante a qualcosa di unico e immateriale che quella stessa cultura ha contribuito a cancellare. Un tesoro che abbiamo definitivamente perduto mercoledì scorso, quando il covid se l’è portata via a quasi 94 anni in un’ospedale di Punta Arenas, nella Patagonia cilena. Lo hanno ricordato i giornali di tutto il mondo, registrando più che un lutto, un’estinzione che contrae ulteriormente la nostra biodiversità culturale.
In realtà definirla etnografa e lessicografa fa un po’ specie, perché Cristina non era una studiosa, ma se mai l’ “oggetto” di studio che si era fatta soggetto, testimone attivo e militante di un’etnia e soprattutto di una lingua destinata ad una irrimediabile scomparsa dopo la sua morte. E’ la parabola, comune a tanti popoli nativi, degli yagan, poche centinaia di individui malamente sopravvissuti all’impatto devastante con la colonizzazione, dopo 6000 anni vissuti come pescatori nomadi tra i fiordi e i ghiacciai del canale di Beagle, tra la Terra del Fuoco e l’isola di Navarino, nell’estremo sud antartico. Da piccolissima Cristina aveva condiviso quella vita durissima con la sua famiglia, pagaiando e pescando nelle acque gelide attorno all’isola. Poi si erano dovuti fermare: inaccettabile per le autorità cilene quell’andare senza regole. E lo stratagemma era stato vietare la circolazione libera di piccoli natanti, le canoe tradizionali di corteccia.
Una manciata di famiglie si è stabilita a Villa Ukika, vicino al capoluogo Puerto William, 120 chilometri a Nord di capo Horn. Lì ho incontrato brevemente qualche anno fa Cristina Calderón, la abuela Cristina per tutti. A lei aveva lasciato il testimone la sorella maggiore Ursula, morta anni prima e molto attiva nel difendere la causa della lingua e della cultura yagan. Cristina era più schiva, ma ferma come una roccia. E’ alle sorelle Calderón che si deve la realizzazione, tra le altre cose, di una guida multietnica degli uccelli delle foreste originarie subantartiche, dove il picchio gigante e l’oca di Magellano sono descritti con criteri scientifici, culturali e artistici e con i nomi e le leggende yagan raccontate da Cristina e Ursula. Nella cultura yagan, del resto, gli uomini sono parenti stretti degli uccelli. Un progetto voluto dal filosofo e biologo cileno Ricardo Rozzi, che ha il suo epicentro nel parco di Omora nell’isola Navarino e sull’idea della relazione etica, indissolubile e orizzontale, tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi, senza gerarchie. Con la nipote, Cristina ha realizzato anche un vocabolario yagan, lingua ricchissima di oltre 30mila vocaboli dal suono dolce. L’ho sentito a casa sua, mentre cercava di far dire qualcosa alla nipotina: nonna, kuluána. «Nessuno parla più lo yagan- si lamentava- Abbiamo organizzato una scuola per un po’ di tempo. Ma la verità è che i giovani non sono interessati. Non imparano, solo qualche parola». Anche per lei, ultima parlante, non era facile: «Finché era viva mia sorella parlavo con lei. Ora da sola, è più difficile ricordare». E anche cantare: «Mia sorella conosceva i canti tradizionali, li cantavamo insieme, ma ora da sola non ne sono più capace». La malinconia, appunto, dell’estinzione.
Il mito di Lola
La vicenda di Cristina ricorda quella di un’altra matriarca indigena custode della lingua e dei canti di un popolo sterminato poche centinaia di chilometri più a nord, i selknam della Terra del fuoco. Se gli yagan erano pescatori, i selknam erano cacciatori, ragion per cui ne venne fatta strage alla fine dell’Ottocento con vere e proprie battute di caccia dagli allevatori europei che li consideravano pericolosi concorrenti, alla stregua di animali predatori. Negli anni Sessanta dall’incontro di due donne, l’antropologa americana Ann Chapman e l’ultima sciamana Lola Kiepja è nato uno straordinario catalogo di canti che illustrano la complicata e affascinante cosmogonia selknam. Lola, morta nel 1966, fu anche lei l’ultima parlante di una lingua e di un’etnia dichiarata ufficialmente estinta nel 1974. Su youtube si possono ascoltare le sue nenie per allontanare il vento o la pioggia o per incantare la balena e attirarla a riva.
Un’epopea di grandi madri che si dipana attraverso la parola e il canto fino ad oggi, con una finestra aperta sul futuro. Tra i sette figli di Cristina, che ha avuto tre mariti, merita una menzione Lidia González Calderón: a gennaio è stata eletta come unica rappresentante del popolo yagan alla costituente cilena che dovrà ridisegnare l’architettura dello stato ed è una dei sette vicepresidenti, tra i quali c’è anche la rappresentante degli indigeni mapuche Natividad Llanquileo. Accanto alla presidente, medica e ricercatrice, María Elisa Quinteros Cáceres. Girls power in stile australe.