'Rodano: lectio magistralis sull''8 marzo'

'In occasione della Laurea honoris causa all''Università di Cassino, Marisa Rodano ha affrontato il tema storico-politico della giornata della donna: che valore ha oggi?'

'Rodano: lectio magistralis sull''8 marzo'
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10 Marzo 2013 - 22.27


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Per LECTIO MAGISTRALIS UNIVERSITÀ di CASSINO

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Cassino – 8 marzo 2013

Desidero innanzitutto ringraziare caldamente il Magnifico Rettore, la Direttrice del Dipartimento, il Senato accademico, la professoressa e cara amica Fiorenza Taricone per l’alto onore che mi è stato riservato con il conferimento di questa laurea honoris causa; tra l’altro sono una studentessa fuori corso dal 1943: non ho mai conseguito la laurea, perché sebbene avessi concluso tutti gli esami, nel maggio di quell’anno, quando venni arrestata dalla polizia fascista per la mia attività contro il regime, le prime stesure della tesi vennero sequestrate. Successivamente, tra clandestinità, partecipazione alla Resistenza e nascita dei figli non sono mai riuscita a laurearmi, neppure nei primi mesi del 1945 quando furono possibili tesi orali.

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Nella Laudatio, mi si attribuiscono qualità che non merito: sono stata soltanto molto fortunata per aver vissuto in un periodo storico di grandi speranze e di significative trasformazioni politiche e sociali, per aver lavorato in partiti e associazioni dove non si diceva “io”, ma “noi”. Sono sempre stata convinta che la crescita personale di ciascuna è più frutto del contesto storico che di qualità individuali.

Ringrazio l’Università di Cassino di aver voluto che questa cerimonia fosse una festa. Ne abbiamo bisogno, perché – ci tornerò tra poco – oggi noi donne non abbiamo molti motivi per festeggiare.

Mi permetto tuttavia di anticipare una considerazione: siamo in mezzo alle macerie, sotto il profilo economico e all’indomani di un risultato elettorale, che ha smentito le previsioni di sondaggisti, giornalisti e politologi e ha prodotto una situazione di stallo. Il presidente Napolitano ha parlato di “nebbia”. Sembra impossibile dare un governo al paese, si parla di tornare presto al voto. Forse anche la coincidenza con la sede vacante contribuisce a creare smarrimento.

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Coltivo la speranza – spero non sia un’illusione – che si sia toccato il fondo. Che si sia oggi, pur in una situazione disastrosa, al termine di un ciclo storico. Se così fosse, sarebbe un momento in qualche modo simile – pur tra ovvie diversità – al primo dopoguerra: un momento in cui una nuova generazione, quella dei giovani e delle ragazze, che, anche per colpa nostra, è stata posta ai margini, può entrare in campo e accingersi al compito di costruire su nuove basi un assetto sociale più giusto, liberato da un metodo personalistico di fare politica e finalmente caratterizzato anche dalla democrazia paritaria.

1.Ho ritenuto potesse essere utile, dato che proprio oggi si celebra la “giornata internazionale della donna”, assumere a tema di questa “lectio” proprio le origini e la storia di questa ricorrenza. anche perché parlare dell’8 marzo mi ringiovanisce, mi fa ricordare le innumerevoli celebrazioni che ho tenuto in tanti anni, dalle borgate romane al parlamento europeo o cui ho assistito, dal Consiglio Comunale di Roma all’assemblea generale dell’ONU.
Per quasi 80 anni è prevalsa una narrazione dell’origine dell’8 marzo, forse nota anche a voi: la data sarebbe stata scelta a ricordo della morte di 129 operaie rinchiuse in una fabbrica di New York e perite nell’incendio dell’opificio l’8 marzo del 1908.

In realtà, si tramandavano varie versioni dell’evento: a volte si parlava di New York, a volte di Chicago, a volte di Boston; a volte di 129 operaie perite nella sciagura, a volte di 146. Ma simili differenze si sarebbero potute far risalire alle inevitabili distorsioni di una tradizione orale.
Dubbi sulla attendibilità dell’origine della giornata hanno cominciato a diffondersi negli anni ottanta. Già nel 1982, due ricercatrici francesi, Liliane Kandel e Francoise Picq1 (Le mithe des origines a propos de la journee internazionale des femmes)) e nel 1987 Marisa Ombra e Tilde Capomazza2 ne mettevano in discussione la credibilità. Esse sostennero in un libro, (“8 marzo – storie, miti, riti della giornata internazionale della donna”) che il racconto sull’origine della giornata, sarebbe stato del tutto leggendario: recensendo il libro, L’Unità il 19 febbraio 1987 era uscita con un titolo in prima pagina, “L’8 marzo sparito”, provocando un profluvio di lettere di sconcerto e di protesta.

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La loro tesi, (la scoperta che la vicenda delle operaie americane morte nel rogo della loro fabbrica l’8 marzo di un anno del novecento non era mai avvenuta o, comunque, non era avvenuta in quella data e in quelle circostanze) appariva però plausibile. In effetti c’era stato un incendio in una fabbrica di abbigliamento femminile, la Triangle Shirtwaist Company, a New York in cui morirono 146 donne, peraltro in gran parte di origine italiana, ma era avvenuto nel marzo 1911. Già prima, nel 1857 a New York sembra che una manifestazione di lavoratrici sarebbe stata brutalmente repressa. E’ possibile che il riferimento alla morte delle operaie a New York, abbia avuto origine da una commistione tra qualche lotta sindacale e un incendio realmente avvenuto nella città statunitense.

In un pregevole volumetto (Otto marzo, la giornata internazionale delle donne in Italia, 2010) Alessandra Gissi sostiene che si dovrebbe, in merito alla vicenda delle lavoratrici perite nell’incendio della fabbrica, far ricorso alla categoria di “invenzione di una tradizione”, nel senso che a tale categoria viene dato da Eric Hobsbawm. (The invention of tradition, Cambridge University press, 1992).

Già nel 1987, rispondendo all’Unità, avevo portato l’esempio di un’altra tradizione “inventata”.

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Mi scuso, poiché non è elegante, di auto citarmi. Conoscete sicuramente gli splendidi versi dei “Mottetti” di Montale. “Poi scendesti dai monti a riportarmi S. Giorgio e il drago” ”inciderti potessi sul palvese/che s’agita alla furia del grecale…” Ebbene, non molti anni fa la Chiesa cattolica ha solennemente dichiarato che alcuni santi – e tra questi il patrono della città ligure – non sono mai esistiti. In realtà non ci sarebbe stato bisogno di bolla pontificia per indovinare che il S. Giorgio, soldato sotto Diocleziano, martirizzato nel 303 per aver lacerato l’editto imperiale di persecuzione dei cristiani affisso sulla porta del palazzo di Nicomedia, non poteva essere identificato con il valoroso cavaliere che aveva liberato una vergine uccidendo un mostruoso dragone (così lo effigia Vittore Carpaccio): non era, in realtà che l’assunzione nella tradizione cristiana di Perseo che libera la bella Andromeda “legata al nudo scoglio.

S. Giorgio era stato venerato per secoli forse perché nel santo viveva un antichissimo mito e si placava un ancestrale desiderio di liberazione dal “mostro”, dal “drago”, magari rivisitato nell’agiografia cristiana come liberazione dal paganesimo. E che S. Giorgio fosse stato dichiarato leggendario, non impediva al mottetto montaliano di evocare l’identità di Genova o all’Inghilterra di conservare il Santo come simbolo nazionale.
Un processo analogo è avvenuto per l’8 marzo: Nell’immaginario femminile si è venuto costruendo, per tradizione orale e alluvioni successive, un episodio carico di simboli:

donne che lavorano in fabbrica, dunque donne che hanno infranto il ruolo e l’immagine tradizionale e rassicurante della moglie-madre-donna che sta in casa;

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donne in lotta per i propri diritti e perciò punite dal padrone, maschio, o dal destino, maschio, con la morte;

donne “rinchiuse” e perciò perite nell’incendio: ancora un’immagine carica del simbolismo dell’oppressione sessuale.

La leggenda si è diffusa ed è stata creduta, perché aveva un significato emblematico. E che l’8 marzo si fondi su una leggenda prova che quella giornata scaturisce da qualcosa di molto profondo. Non è la celebrazione di un episodio storico che, nel corso degli anni, si sia via via dilatata sino a comprendere più ampi significati; ma piuttosto l’espressione di un moto, ricco di aspirazioni e di sentimenti, che – maturando in modo diffuso, in luoghi e tempi diversi – ha cercato nel suo corso, e in un processo di unificazione, di fissarsi su un episodio e su una data. E’ una prova di più, se ce ne fosse stato bisogno, che il movimento di liberazione del sesso femminile è una grande ondata di fondo, di significato storico, epocale.

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Solo, infatti, tali profondi rivolgimenti producono leggenda. E quando la leggenda si afferma, diviene motore che smuove coscienze, scalda i cuori, innesca iniziative, essa è più forte della verità storica.

2. Quale è l’origine vera delle celebrazioni dell’8 marzo? La giornata della donna è nata negli Stati Uniti, a Chicago, il 3 maggio 1908 ad iniziativa delle donne socialiste americane. A partire dal 1909, il “Woman’s day”, fissato per l’ultima domenica di febbraio, come manifestazione per il diritto delle donne al voto, si era celebrato in varie parti degli Stati Uniti e nel 1910, a pratica consolidata, le socialiste americane si erano recate a Copenaghen alla Conferenza internazionale delle donne socialiste col mandato di proporre l’istituzione di una giornata internazionale delle donne per il diritto al voto. La proposta fu ripresa e rilanciata dalla femminista e dirigente del partito socialdemocratico tedesco, Clara Zetkin,4 la quale propose che le donne socialiste di tutti i paesi organizzassero la celebrazione, in collaborazione con le organizzazioni politiche e sindacali, con l’obiettivo immediato di ottenere il diritto di voto; la Conferenza approvò la proposta e malgrado, come riferisce anche la storica Franca Pieroni Bortolotti, (Socialismo e questione femminile in Italia, 1974)5 fosse scarso l’entusiasmo dei partiti socialisti per il suffragio femminile, la celebrazione si venne estendendo in molti paesi in date varie, tutte collocate all’inizio della primavera, tra febbraio e marzo. La giornata venne celebrata a Parigi, a Berlino, a Vienna, a Dusseldorf, in numerose città dell’Olanda e della Svizzera tra il 1911 e il 1914; di particolare rilievo la celebrazione a Berlino del 1914, perchè alla vigilia della “settimana rossa” e, tre anni più tardi, la famosa manifestazione delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo del 1917, (23 febbraio secondo il calendario gregoriano) che darà il via alla rivoluzione di febbraio, e che è narrata dalla famosa rivoluzionaria russa, forse più nota perché sostenitrice del libero amore, Alessandra Kollontaj.

Proprio questo evento era stato considerato dalle ricercatrici che ho prima citati l’origine della giornata, e questa ipotesi aveva provocato il divampare delle polemiche. Si è supposto che, con la “leggenda” delle lavoratrici perite nell’incendio di New York, si fosse voluta “staccare la giornata internazionale della donna dalla sua storia sovietica”, (cioè dalla rivolta delle lavoratrici di Pietrogrado) per rendere così la giornata, in tempi di “guerra fredda” più presentabile all’opinione occidentale.

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Lo storico Piero Melograni, ad esempio, ha sostenuto che l’episodio della rivolta di Pietrogrado sarebbe stato “rimosso”, volutamente dimenticato, perché le “organizzazioni femminili” avrebbero supinamente accettato una “retorica comunista” la quale non avrebbe dato valore alla rivoluzione di febbraio perché la vera rivoluzione russa sarebbe soltanto quella bolscevica d’Ottobre ( ! ).

Considero l’illazione infondata. Sarebbe come se, parlando della rivoluzione francese del 1789, si negasse che la convocazione della Convenzione fosse figlia del Giuramento della Pallacorda. Va peraltro osservato che in Italia dove lo storicismo ha molto influito, il PCI ha sempre visto la rivoluzione russa come un processo e, dunque, la rivoluzione di febbraio come l’evento che ha posto le basi per l’abbattimento del regime zarista e ha consentito, poi, ai bolscevichi, nell’ottobre del 1917, l’assalto al Palazzo d’Inverno.

L’episodio di Pietrogrado, tra l’altro, era tutt’altro che rimosso. Anche io ne parlavo nelle iniziative dell’8 marzo, proprio a sostegno della tesi che quella giornata era stata occasione di lotte in cui le donne erano divenute protagoniste di svolte storiche. Oppresse, sì, le donne ma capaci di divenire protagoniste.

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Perché, allora, si faceva riferimento alle operaie americane morte nell’incendio della loro fabbrica? Ma, molto semplicemente, perché allora si ignorava che l’episodio di New York fosse una leggenda.

3. Oggi la giornata viene celebrata in ogni parte del mondo.

Tralascio per brevità di soffermarmi sulla storia della celebrazione in Italia nei primi decenni del novecento.

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Non si ha notizia di celebrazioni dell’8 marzo nel primo decennio del novecento forse anche per le aspre polemiche interne al PSI sul suffragio femminile – sono note le discussioni in proposito tra Turati e Anna Kuliscioff -. Nel marzo del 1921, all’indomani della scissione di Livorno, il Comitato delle donne comuniste (Rita Montagnana, Camilla Ravera, Felicita Ferrero e Elvira Zocca) accusa il partito socialista di aver sabotato la celebrazione della giornata; nel 1922 risultano celebrazioni in alcuni comuni del Piemonte. Ovviamente con l’avvento del fascismo, la giornata, considerata manifestazione eversiva, non venne più celebrata.

Un’altra dirigente delle donne comuniste, Teresa Noce, forse più nota col nome di battaglia di Estella, racconta nella sua autobiografia (“Rivoluzionaria professionale”1974)7 che vi furono tentativi nel 1931 di diffusione nelle fabbriche tessili del biellese di volantini clandestini sulla giornata. Ma è soprattutto significativo l’episodio, rimasto poco noto, dell’8 marzo nel campo di lavoro forzato in una fabbrica di munizioni a Hollenshein nella Cecoslovacchia occupata dalla Germania, dove Estella era stata trasferita dai nazisti dopo il suo arresto. nel 1943, nella Francia occupata e la deportazione nel campo di concentramento di Ravensbruck. Teresa Noce racconta: “Per l’8 marzo non potevamo organizzare una festa, perché eravamo ormai troppo deboli e affamate, quindi decidemmo di tenere una conferenza …. L’incarico fu dato a me.” Estella poi ricorda che alcune avrebbero voluto riservarla alle comuniste, o quanto meno, alle deportate politiche e che Lei si era opposta risolutamente, perché tra le deportate oltre alle comuniste e alle socialiste c’erano cattoliche ed ebree, operaie che conoscevano la lotta di classe, ma anche contadine, proprietarie di terre, impiegate e funzionarie pubbliche. Si doveva perciò a suo avviso parlare di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, delle serve della gleba, delle comunarde di Parigi….Si può dire che sia la prima volta che la celebrazione dell’8 marzo si stacca dalla sua origine classista e tende a rivolgersi alle donne in generale.

Va ricordata, del periodo bellico, soprattutto la manifestazione delle donne torinesi contro la fame e la guerra a piazza Castello l’8 marzo del 1943, da cui hanno preso avvio nei giorni seguenti, in Piemonte e a Milano, quegli scioperi che hanno suonato la campana a morto per il regime di Mussolini. Iniziative di lotta nella giornata dell’8 marzo si svolgono, durante la Resistenza e la guerra di liberazione nazionale, ad opera dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà (GDD, l’organizzazione clandestina delle donne riconosciuta dal Comitato di Liberazione Nazionale).

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All’indomani della liberazione, come ha ricordato il Magnifico Rettore, su iniziativa dell‘Unione Donne Italiane, la giornata viene rilanciata. La prima celebrazione a Roma – rammento – ebbe luogo nell’aula magna del Liceo Visconti l’8 marzo del 1945, prima della fine della guerra nel nord Italia, avvenuta il 25 aprile.

Per noi, giovani uscite dalla Resistenza, l’8 marzo era una assoluta novità. Del movimento femminile e femminista italiano e internazionale di prima del fascismo non sapevamo nulla: il regime fascista aveva operato una totale cancellazione.

L’UDI voleva che le donne potessero considerare l’8 marzo la loro festa, come lo era il Primo maggio per i lavoratori: di conseguenza iniziò a rivendicare mezza giornata libera per le lavoratrici, suggerì agli uomini di fare regali alle mogli, alle figlie, alle fidanzate, ai bambini di portare fiori alla propria insegnante, ai sindaci di rivolgere un augurio e un ringraziamento alle proprie dipendenti, alle socie dell’UDI di organizzare rinfreschi nei circoli o di andar fuori a cena, senza gli uomini, con le amiche; chiese ai negozi di esporre nelle vetrine locandine che invitavano ad acquistare regali per le donne, alle elette di ricordare la giornata nelle assemblee elettive.8

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Ma l’8 marzo fu anche occasione di cortei, sit in, comizi, giornata di manifestazione e di lotta, non più per il diritto di voto, conquistato dalle donne italiane nel gennaio 1945, ma per il diritto al lavoro, la parità di retribuzione, la tutela delle lavoratrici madri, l’accesso alle carriere, compresa la magistratura, la polizia, l’esercito, il divieto di licenziamento per matrimonio, la legge di tutela del lavoro a domicilio e via via per i servizi sociali, l’obbligo scolastico fino a 15 anni, il piano nazionale degli asili nido, i consultori, la scuola materna pubblica, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, le leggi contro la violenza sessuale e la violenza in famiglia, i congedi parentali.

L’8 marzo é stato, dunque, in pari tempo, giornata di rivendicazione e di lotta e giornata di festa, un appuntamento centrale nella storia dell’UDI e, sebbene anche la Cgil organizzasse iniziative per la ricorrenza, soprattutto dentro i luoghi di lavoro, la giornata ha coinvolto non solo le lavoratrici delle fabbriche e degli uffici, ma contadine, casalinghe, studentesse, insegnanti, professioniste, commercianti, artigiane.

4. A questo punto mi si consentirà di raccontare come e perché si pervenne, alla scelta della mimosa come fiore della Giornata Internazionale della donna.

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Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stata la onorevole Teresa Mattei, nota per essere stata deputata alla Costituente, ad aver pensato di fare della mimosa il fiore simbolo dell’8 marzo quando, durante la resistenza, militava nei GDD (“Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”). Ma in proposito esistono diverse vulgate: la onorevole Lina Fibbi, militante e dirigente delle donne del PCI e, successivamente segretaria del sindacato tessili, afferma che l’idea di scegliere quel fiore sarebbe stata dell’onorevole Luigi Longo, dirigente del Comitato di liberazione dell’alta Italia (CLNAI); che, durante la resistenza, l’8 marzo la mimosa sarebbe stata deposta sulle lapidi dei caduti e che i nazisti se ne fossero accorti. Tale versione però sembra improbabile: è possibile che ciò sia potuto accadere in Liguria, ma non sembra credibile che durante la guerra, e sotto i massicci bombardamenti, la mimosa venisse importata in Piemonte o in Lombardia.

Può darsi che la mimosa abbia una dop-pia maternità (o paternità…) o addirittura una maternità molteplice. Ricordo che in una riunione del Comitato Direttivo Nazionale dell’udi nelle sale di palazzo Giustiniani, prima provvisoria sede dell’associazione, forse nella primavera del ’45 (oppure, più probabilmente, in occasione dell’8 marzo 1946, il primo che si celebrava nell’Italia ormai libera) venne discussa la opportunità di scegliere un fiore per l’8 marzo: «Come a Parigi il primo maggio si distribuiscono i mughetti» – disse la onorevole Giuliana Nenni, che era stata a lungo in esilio in Francia. Scartato il garofano, già legato al 1o maggio, esclusi gli anemoni perché troppo costosi, la mimosa sembrava convin-cente, perché, almeno nei dintorni di Roma, fioriva abbondante e poteva esser raccolta sulle piante che crescevano selvatiche. Esiste nell’Archivio dell’UDI copia della circolare diretta ai Comitati provinciali dell’associazione per informarli della scelta, sulla quale io stessa avevo disegnato un appros-simativo rametto di mimosa con l’apposito punteruolo, che incideva la cera, sul cliché, che serviva a riprodurre le copie al ciclostile. (non esistevano allora fotocopiatrici).

Non so se fu scelta felice, se non per i coltivatori liguri, per i quali nel corso degli anni si sarebbe aperto un imprevisto mercato. Nel Lazio e nel sud, infatti, dove la pianta cresce spontanea, sovente fiorisce assai prima dell’8 marzo. Mi venga consentito un ricordo personale. Quando ero dirigente dell’udi di Roma, ne face-vamo venire quintali da Sanremo: oltretutto i chicchi erano più grossi, più intensi di colore, più profumati. Ma trasportare decine e decine di ceste per tre piani di scale – nel vecchio palazzo di via Torre Argentina dove avevamo la sede non c’era ascensore – e trascorrere intere giornate a dividerla e a farne mazzetti era penoso: dopo qualche ora l’odore diveniva insopportabile e il polline che si diffondeva nelle stanze provo-cava un prurito insostenibile. In quei giorni mi sarei ben guardata dal rivendicare con le mie compagne di sventura dell’udi di Roma la co-maternità di quella scelta.

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Singolare quanto scrive Alfredo Cattabiani nel Florario alla voce Mimosa: «La mimosa, che in botanica è chiamata acacia dealbata, è stata introdotta dalla Tasmania in Europa all’inizio del secolo scorso [1800, n.d.r.]. […] La scelta [di adottare la mimosa come fiore dell’8 marzo] fu scelta felice anche simbolicamente perché la mimosa indica il passaggio dalla morte a uno stato di luce nella Luce. È un simbolismo comune a tutte le acacie che hanno rappresentato l’idea della resurrezione nelle religioni precristiane e il Cristo resuscitato nelle Chiese primitive di Oriente e dell’Egitto: caratteristica che si ritrova nelle società ermetiche del Medioevo e della Massoneria […]. È dunque un emblema di Rinascita, di Vittoria; ma essendo una pianta eccezionalmente vitale e robusta nonostante il suo aspetto fragile, potrebbe evocare anche l’energia “celata” della femminilità».
Come si vede sulla mimosa si è molto almanaccato e, invece le ragioni della scelta furono essenzialmente pratiche!

L’UDI si adoperò per distribuire la mimosa in tutte le possibili sedi. Nel 1952, ad esempio, convincemmo Giuseppe Di Vittorio, (eletto consigliere comunale di Roma) ad andare personalmente in giro per gli uffici comunali a offrire la mimosa alle dipendenti, persuase che neppure le più accanite democristiane avrebbero rifiutato un omaggio che veniva dal Segretario generale della CGIL, noto e stimato anche per le sue battaglie in favore dei lavoratori del pubblico impiego.

5. In Italia, la Giornata Internazionale della Donna, tra molti alti e bassi, si è affermata, ha contagiato ambienti, associazioni, movimenti diversi, pur non essendo mai stata riconosciuta, a differenza del primo maggio, come giornata festiva.

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La celebrazione dell’8 marzo rimase, infatti, per molti anni, quelli della “guerra fredda, della contrapposizione tra mondo occidentale e la cosiddetta area socialista, oggetto di polemica e di contrasto: considerata dai governi a direzione DC una iniziativa delle sinistre, dell’opposizione, ostacolata in tutti i modi anche facendo intervenire le forze dell’ordine. All’epoca, la mimosa veniva considerata poco meno che un simbolo sovversivo. Se ne vietava la diffusione nelle strade, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Spesso le donne dell’UDI che offrivano quel fiore giallo e profumato venivano fermate e denunciate dalla polizia e i pericolosi mazzetti venivano sequestrati.

Col mutare della situazione politica, la giornata dell’8 marzo venne dapprima tollerata e poi, giocoforza, ammessa, giacché, durante gli anni del centrosinistra c’era un partito di governo, il PSI, che, essendone stato l’inventore, la celebrava.…Poco alla volta l’8 marzo, con connessa mimosa, è stato accettato da tutte le forze femminili organizzate, di ogni orientamento, anche dalle donne delle ACLI, della DC e dalle associazioni femminili cattoliche: un’anomalia italiana, che testimonia l’influenza esercitata dall’UDI. Infatti, ancora negli anni ’80, – mi si consenta un altro ricordo personale – avendo io proposto di celebrare l’8 marzo al Parlamento Europeo, una mia collega tedesca della CDU10, Marlene Lenz, ebbe a rispondermi, indignata: “Ma è una festa della DDR11, una festa comunista!” In Italia, iniziative per l’8 marzo venivano già organizzate persino dalle donne dell’Azione Cattolica…

Negli anni ruggenti dopo il ‘70, l’8 marzo fu caratterizzato dai grandi cortei dei movimenti femministi e delle studentesse delle scuole. Nel «decennio di piombo» – a riprova dell’universalità assunta dall’8 marzo – ho visto persino sfilare nei cortei ragazze con la mimosa in petto e le dita piegate nel segno della P38. In seguito hanno celebrato la giornata, a modo loro, anche le donne di estrema destra, persino quelle del MSI.

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Ma quando la giornata internazionale della donna è divenuta di tutti, ha avuto inizio – come era inevitabile – la contestazione. Si cominciò, da parte di aree femministe, ma anche di donne intellettuali di sinistra a dire: “Aboliamo l’8 marzo, aboliamo la mimosa….Perché solo una giornata per le donne? Vogliamo che sia otto marzo tutto l’anno…”. Per la verità sono frasi che ho letto o sentito ripetere anche in questi giorni.

Negli ultimi decenni del novecento la “spinta propulsiva” dell’8 marzo sembrava esaurita: perché? Da un lato perché il suo carattere politico, il suo contenuto di lotta erano indeboliti nel momento in cui l’8 marzo era diventato un’occasione o un pretesto per rivolgersi alle donne dai più diversi pulpiti e spesso con opposti scopi.12 Ma anche perché, purtroppo, la giornata era divenuta consumistica, una ricorrenza come S. Valentino o la festa della mamma: regalini confezionati con la mimosa, scatole di cioccolatini, decorate di mimosa, esposte nelle vetrine, ristoranti che propagandavano la “cena dell’8 marzo”, extracomunitari che vendevano mazzetti di mimosa ai semafori….Ne ho visti anche questa mattina. Si è persino, talora, sconfinato nella volgarità: feste nelle balere, spogliarelli maschili….

Questa distorsione non è stata colpa dei movimenti delle donne; è il mercato che si appropria di tutto: si è appropriato del Natale, della Pasqua, del Primo Maggio, non poteva non appropriarsi anche dell’8 marzo.

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Tuttavia, anche nei primi anni del nuovo millennio, non sono mancate manifestazioni e iniziative consone al suo carattere e alla sua tradizione. Quest’ anno si svolgono molte diverse celebrazioni, molti convegni e seminari dedicati a una riflessione della situazione in cui si trovano le donne, anche se ancora adesso, come ho accennato, non mancano i tentativi di delegittimare la giornata.

Ha senso, oggi, l’8 Marzo? Lo ha per le tante elette giovani e giovanissime dei diversi schieramenti, una ricorrenza che ha più di cento anni? E le donne italiane hanno ancora bisogno di un appuntamento annuale di lotta?

Oggi, per la prima volta nella storia abbiamo più del 25% di donne in Parlamento. Ma il risultato si deve più a un processo di cooptazione da parte dei vertici – maschili – delle formazioni politiche, (anche se in alcuni casi si sono praticate elezioni primarie o raccolta di candidature sul web) che a una reale forza delle donne, come è confermato dai risultati non buoni nelle elezioni regionali, dove gli elettori disponevano di una preferenza per scegliere gli eletti: nel Lazio, ad esempio, le donne elette sono pochissime.
Le donne sono presenti e attive nella società, nelle professioni, nell’attività economica, nell’informazione, nelle università. Tante, (anche fra le nuove italiane, le immigrate) titolari di piccole imprese artigiane, commerciali, agricole fanno fronte coraggiosamente alle difficoltà di credito e di sbocchi sul mercato.

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Le ragazze studiano di più, sono più brave, conseguono la laurea in meno anni dei maschi e con votazioni più alte; ma giunte alla fine del corso degli studi, non sfondano: nelle università restano in ruoli precari e talora non retribuiti.

La percentuale di donne che hanno un lavoro extradomestico retribuito è tra le più basse dell’Unione Europea. La parità di retribuzione spesso non esiste.
La precarietà nel rapporto di lavoro vanifica le leggi sul divieto di licenziamento per matrimonio e persino sulla tutela delle lavoratrici madri; rende difficile programmare una famiglia, un rapporto di coppia, una maternità. Il valore della maternità come scelta libera e consapevole, ma anche come valore sociale è stato cancellato. Ne consegue, per le donne, una frustrazione sistematica del desiderio di maternità e del diritto all’autodeterminazione. Inoltre alcune conquiste sono minacciate (si pensi alle vicende della procreazione assistita o della pillola Ru) o sono inesigibili.

La situazione di tante lavoratrici anziane senza lavoro e senza pensione o la condizione di vita delle pensionate che “godono” – si fa per dire – della pensione sociale o quella delle donne sole (divorziate, separate, madri nubili) con figli o genitori anziani e non autosufficienti a carico è spesso tragica.

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I tagli e ai bilanci degli enti locali colpiscono i nidi, le scuole per l’infanzia, il tempo pieno nella scuola per non parlare dell’incremento dei costi della salute.

Se é vero che alcune donne rivestono incarichi di grande autorità e rilevanza istituzionale, non possiamo dire che nella vita politica, nei luoghi dove si decide, abbiano un potere reale.

E’ da chiedersi poi se la violenza maschile contro le donne, soprattutto nell’ambito domestico, il numero mostruoso di femminicidi non indichi una reazione contro la loro nuova collocazione e libertà, un tentativo di riaffermare la signoria e il potere maschile.

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E, soprattutto, su quasi tutte grava, se non il doppio lavoro, quantomeno la difficoltà di conciliare attività extradomestica e cura della famiglia;
Le donne si trovano, inoltre, a dover operare in un clima di pregiudizio negativo, per cui bisogna dimostrare di essere più brave dei maschi (si veda il bel libro di Paola Di Nicola, “La giudice”).

Ci troviamo dunque in una situazione contraddittoria: da un lato le donne sono, oggi, più istruite, acculturate, emancipate, consapevoli, presenti nella sfera produttiva e pubblica: una situazione ben diversa da quella dei primi anni della Repubblica: secondo il censimento del 1961 le casalinghe, prive di redditi propri erano 11 milioni e il 10% delle donne era analfabeta.
Dall’altro il sistema sociale (orari e tempi di lavoro, modalità di organizzazione degli studi, della ricerca, dell’attività lavorativa, persino il linguaggio) è ancora caratterizzato – come se nulla fosse cambiato – dal tradizionale presupposto di una divisione dei ruoli sociali secondo il sesso: agli uomini lo studio, il lavoro, la politica, alle donne la riproduzione e la cura. Un sistema pensato da uomini per uomini, che hanno alle spalle donne che provvedono ai compiti della sopravvivenza.

Sono senza dubbio trasformati i rapporti interpersonali tra i sessi e le donne manifestano una libertà e un’autonomia un tempo impensabili, come è dimostrato dal crescente numero di unioni di fatto, di donne single e dal comportamento disinibito di giovani e giovanissime. Ma sovente l’esercizio della libertà mutua il modello esistente, quello dei maschi. Inoltre un’autentica dittatura telecratica impone i suoi modelli e i suoi disvalori, vecchi e nuovi stereotipi: la manipolazione della immagine della donna, la sua riduzione al mero corpo.

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Penso al dibattito sui media e nella pubblica opinione, spostato dalla valenza politica dei comportamenti delle persone che svolgono un ruolo pubblico al mero gossip, alla diffusa identificazione maschile con tali comportamenti, alle stupide contrapposizioni tra le ragazze “disinibite”, di cosiddetti “facili costumi” e “le donne per bene”, al tentativo, operato dopo la straordinaria manifestazione organizzata da SNOQ il 13 febbraio 2011, di asserire che le femministe da libertarie erano divenute bacchettone.
Non esiste insomma una vera democrazia paritaria. Viviamo ancora in una società che rimane maschilista, non a misura dei due generi, ma di uno solo.
La crisi economica scoppiata nel 2008, e le misure di rigore assunte per far fronte al debito che grava sull’Italia hanno danneggiato particolarmente le donne: eppure le donne sono, a detta di molti economisti, una risorsa decisiva per uscire dalla crisi. Possono svolgere un ruolo fondamentale. Anche se, purtroppo, c’è una grande frammentazione dei movimenti, delle reti, delle associazioni femminili, che non riescono perciò a pesare come “soggetto politico”, tra le donne c’è una grande voglia di cambiare, di protestare, di “esserci”.

Per tutto questo l’8 marzo mantiene il suo valore simbolico. Un 8 marzo di rivendicazione e di lotta potrebbe, se fossimo capaci di passare il testimone alle giovani generazioni, tornare ad avere un grande significato liberatorio. Personalmente mi auguro che ciò possa avvenire.

Marisa Rodano

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Marzo 2013

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