«Cessa», «Ridicola», «sei una valletta con pretese da giornalista», «La famosa tuttologa non che tettologa». Sono alcuni degli insulti alle giornaliste, i più lievi, intercettati durante il monitoraggio su twitter e facebook realizzato da GiULiA-giornaliste in collaborazione con Vox-Osservatorio sui diritti, in occasione della presentazione della Quinta mappa dell’intolleranza nella quale è emerso ancora una volta il prevalere della misoginia su altre forme di hate speech.
Lo scatenarsi del linguaggio d’odio come freno all’informazione: vera e propria censura per il lavoro delle giornaliste e dei giornalisti. Per le donne con un’aggravante, vittime di attacchi sessisti, spesso di grande volgarità e insieme di grande violenza (con un richiamo ripetuto ad atti sessuali e allo stupro), che in più casi sembrano orchestrati per attaccare le professioniste nel loro lavoro, soprattutto se impegnate in settori particolarmente esposti, tanto sulle inchieste su migranti o Islam, quanto su malavita organizzata o mafie. Come se l’essere donne a scrivere su temi socialmente sensibili fosse inaccettabile per gli odiatori da tastiera.
Queste aggressioni social portano, in situazioni limite, a conseguenze egualmente dannose per le professioniste: indotte a interrompere le inchieste e i reportage che stanno realizzando e a cambiare settore di lavoro (non tanto per loro volontà ma per l’intervento delle aziende editrici che temono conseguenze per queste sovraesposizioni), o costrette dal ripetersi di minacce e dall’accumulo di stress ad abbandonare Facebook o su Twitter, chiudendo le porte alla condivisione del proprio lavoro.
Da questa preoccupazione è nata la collaborazione di GiULiA-giornaliste con Vox-Osservatorio sui diritti: tramite un monitoraggio a campione su twitter realizzato dall’Università di Bari e su Facebook da un gruppo di volontari abbiamo cercato di verificare due aspetti: da un lato se e come sui social si manifesta la misoginia nei confronti delle giornaliste, dall’altro come i profili di professionisti dell’informazione possono contribuire o meno, anche involontariamente, a creare un ecosistema favorevole per il discorso misogino in generale. La risposta, come i dati dimostrano è in entrambi i casi positiva.
Analizzando diversi profili di giornalisti e giornaliste, che abbiamo scelto tra i più attivi sui social oppure particolarmente esposti, in particolare le giornaliste impegnate in settori come la politica, la criminalità organizzata o l’immigrazione, quello che emerge è la prevalenza di menzioni, ossia commenti, negative, il 57% su twitter sia per gli uomini che per le donne. Con una piccola quota, ma sempre eccessiva, di menzioni esplicitamente misogine su tutti profili.
La differenza sostanziale però è che i maschi vengono di solito attaccati per quello che dicono e alle donne succede di essere attaccate in una misura eccessiva per quello che sono, per lo specifico di genere. Gli strumenti di aggressione messi in atto sono i consueti: bodyshaming, minacce di stupro e oscenità, oppure si sminuiscono le competenze professionali, con varie versioni della formula intimidatoria: «Torna a fare la calza», torna nello spazio che il suo sesso ti ha destinato, la cucina. Un elemento , questo del discredito della professionalità delle donne, riscontrato a livello generale anche nella mappa di Vox Diritti
Dall’esame del materiale elaborato per questa ricerca, sembra poi emergere un altro dato: quando i commenti vengono lasciati aperti, senza replica, sembra di assistere ad un gioco al rialzo, con attacchi sempre più feroci, sganciati dai fatti l’aggressione sessista in generale diventano fini a sé stessi, così come le altre forme di hate speech. Quando invece intervengono risposte, si crea contradditorio, vengono eliminati – come hanno testimoniato alcune colleghe – commenti sull’aspetto fisico e volgari aggressioni sessiste, la spirale dell’odio si ritrae. E’ urgente una riflessione approfondita, non semplice, su diritti e doveri dei giornalisti e delle giornaliste nella gestione delle loro pagine social, che ormai sono uno degli strumenti indispensabili della professione per mantenere un’interlocuzione necessaria con la propria audience. Pagine pubbliche di professionisti noti con migliaia di follower non possono essere una prateria selvaggia dove gli hater hanno campo libero, moltiplicando all’infinito messaggi d’odio e, nei casi testimoniati in questa ricerca, misogini. E’ necessaria un’alleanza di tutti nel contrasto al discorso d’odio.
Il tema della moderazione è quindi una questione cruciale e apertissima. Quello dei social network è ormai una porzione importante di spazio pubblico che deve essere presidiata, che non può essere abbandonata da chi di mestiere fa informazione, per una rinuncia che sarebbe una resa drammatica per la libertà di espressione. Una scelta radicale che per esempio ha deciso di fare la direttrice del Giornale di Brescia Nunzia Vallini, decidendo di congelare la pagina facebook del giornale, in una sorta di Lockdown dall’odio come lo ha chiamato. Ma probabilmente non basta il conforto di un algoritmo. E’ necessario da un lato un’educazione all’uso delle reti sociali, una carta di utilizzo dei social a cui giornali e giornalisti debbano in qualche modo attenersi e dall’altro la promozione di strumenti di difesa che non siano lasciati all’iniziativa individuale.
Solo pochi mesi fa, lo scorso settembre, nella sede della Federazione della Stampa è stato materialmente consegnato al viceministro degli Interni Matteo Mauri un dossier – una vera mole di documenti – sulle minacce social ricevute da giornaliste e giornalisti solo nell’ultimo anno. Minacce che sempre di più utilizzano i social network come mezzo. Se chi attacca un giornalista attacca la libertà di tutti ad essere informati, forse è giunto il momento di fare appello a chi ha a cuore la libera informazione per trovare una rete di alleati nei social, che contrastino l’odio con il ragionamento.