Relatrici dell’incontro sulla convivenza, nei media, tra informazione e pubblicità sono state: un’accademica, Stefania Cavagnoli – docente di linguistica applicata e glottodidattica all’Università Roma2 -, una pubblicitaria, Patrizia Scafoletti – planning director del gruppo TBWA/Italia – e tre giornaliste, che poi sono quattro con la coordinatrice Marina Cosi, ovvero: Maria Teresa Manuelli – caporedattrice Edizioni DM e coordinatrice del libro “Donne, Grammatica e Media”-, Silvia Brena – anche docente universitaria e cofondatrice di VoxDiritti- e Paola Rizzi, caporedattrice di Metro.
Il titolo un po’ vetero del corso inizialmente era: Il linguaggio della pagina a fianco. Perché accanto alla pagina con i “pezzi giornalistici” il quotidiano spesso ne reca e recava un’altra occupata dalla pubblicità. Ma è un’immagine superata, non solo perché sia sul cartaceo che nel web, come pure in televisione, l’intreccio è più curato e accurato, ma perché è cambiata la stessa cultura dell’advertising. Più sofisticata, allusiva e anche più “bella”. Grazie anche al ruolo dei creativi, in Italia si è imposto un approccio maggiormente di contenuti e/o sofisticato.
Le maggiori aziende chiamano sempre più spesso colleghe e colleghi a tenere corsi o li impegnano direttamente come creatori di contenuti (branded content). Un travaso di sensibilità, ma anche la consapevolezza, nei grandi marchi, che eccedere in stereotipi possa far perdere quote di mercato. Sino al punto di “strappare” rispetto al senso comune, imponendo argomenti tradizionalmente tabù come gli organi sessuali. Rimane tuttavia, anche sui “giornaloni”, una certa pubblicità stereotipata oppure l’uso di tecniche di segmentazione per moltiplicare le vendite (e qui gli stereotipi vanno a nozze), mentre l’ipersessualizzazione del messaggio migra verso contenitori più popolari, tv o web più che cartacei