Siamo nel 2021 e non importa se ci si laurea, si frequentano master professionalizzanti, si superano esami di Stato: se sei donna non sei una professionista ma un oggetto da esporre in vetrina.
Sono una giornalista professionista, ho superato l’esame a 25 anni. Oggi ne ho quasi 30 e di giornalismo sul campo ne ho fatto e continuo a farne tutti i giorni. Per carità, non ho un’esperienza decennale, sarebbe impossibile alla mia età, e ho ancora tanta strada da fare e kilometri da macinare, ma sicuramente non sono una novellina.
Eppure devo ancora vivere sulla mia pelle esperienze raccapriccianti. Tramite un collega di una nota testata ottengo un colloquio per una tv, che mi propone un ottimo contratto, dopo anni di precariato, a tempo indeterminato. Dopo i primi confronti da remoto, il colloquio dal vivo. Va tutto bene, io sono soddisfatta, l’editore si dice entusiasta e mi saluta con “Pensaci qualche giorno, il contratto è pronto e solo da firmare, manca il tuo sì definitivo”. Quindi aspetto e mi rifaccio viva dopo qualche giorno per comunicargli la mia decisione, positiva. Non risponde. Mi chiama invece il collega che ci aveva messi in contatto. Si dice mortificato, ma l’editore ha cambiato idea, inaspettatamente. Alla mia richiesta di spiegazioni mi viene svelato l’arcano: al colloquio ho indossato le scarpe basse e non i tacchi. Faccio notare che il colloquio era per un posto da giornalista, non da velina, che con tutto il rispetto per quella professione decisamente non è la mia.
L’editore continua a negarsi per un confronto telefonico e spiega invece al suo amico che per loro l’immagine è importante e che non può pensare di mandare una giornalista che rappresenti la testata in giro a fare interviste vestita in modo così disinvolto. Non sarebbe necessario specificarlo, ma al colloquio avevo sì le scarpe basse ma comunque un outfit adeguato all’occasione, di certo non pareo e bikini, anche se forse a posteriori mi viene da pensare che sarebbe stato meglio. Per lui, non per me.
Non ci sono molte parole da aggiungere. Resta il rammarico, la rabbia, la sensazione di sporco addosso per venire sminuita così per una questione di aspetto, del tutto marginale e che non rappresenta minimamente me e la mia professionalità. Se una giornalista è brava solo con l’outfit giusto, allora io non sono l’unica ad avere ancora tanti kilometri da macinare, ma anche questa società e questo mondo del lavoro che ci vuole, per l’appunto, come un oggetto da esporre e non come esseri senzienti, con un percorso formativo e professionale, e soprattutto con qualcosa da dire.