Settimana dal 7 al 17 maggio
Firme in prima pagina: 1010 uomini, 329 donne
Editoriali e commenti: 200 uomini e 41 donne
Interviste: 350 uomini e 77 donne
Una settimana segnata dai primi giorni del pontificato di Leone XIV con tante pagine dedicate e interviste a chi lo ha conosciuto. Importante per noi capire quello che sarà il suo atteggiamento verso il mondo femminile e molto dipenderà dalla conferma delle nomine fatte da Papa Francesco, prima di morire, vedremo. Per il resto tiene banco la politica internazionale e in un mondo sempre più in guerra si fa fatica a rintracciare nei giornali argomenti che riguardino noi. Purtroppo a questa mancanza provvede la cronaca nera: in una settimana tre donne uccise, il drammatico epilogo del detenuto in permesso di lavoro che si lancia dalle guglie del Duomo di Milano, dopo aver ucciso una donna e ferito un collega. Poi molestie, tante anche in ospedale nella civilissima Piacenza o alla Corte penale internazionale, dove il procuratore Karim Khan si autosospende dopo i sospetti su suoi comportamenti scorretti. Seguono cold case riaperti come la morte di Chiara Poggi. Apprendiamo pure dal ministro di Giustizia Carlo Nordio che dai violenti dobbiamo salvarci da sole rifugiandoci in chiese o farmacie e c’è pure il sondaggio della vergogna in un liceo di Bassano del Grappa, dove un ragazzo domanda ai compagni chi fosse più meritevole di essere uccisa tra Giulia Tramontano, Giulia Cecchettin e Mariella Anastasi. Un mese fa, come ricorderete, in questa rassegna avevamo raccontato di altri liceali che inneggiavano a Filippo Turetta, condannato all’ergastolo per la morte di Giulia Cecchettin. Non è un buon segno.
Per fortuna ci sono anche alcune notizie positive: in Francia la sentenza Depardieu accoglie le denunce delle due donne coinvolte e il giudice stigmatizza in sentenza l’atteggiamento aggressivo del difensore dell’imputato. A Cannes il festival in versione “sobria” (almeno sul red carpet) vede le donne in giuria e tante registe; nello sport si fanno onore le nostre tenniste Jasmine Paolini e Sara Errani, tenute pur sempre un passo indietro, anche nei titoli, rispetto a Jannik Sinner rientrato dopo un’assenza di tre mesi.
Tornando al Papa, segnaliamo su Domani l’intervento della sociologa delle religioni Paola Lazzarini a proposito del futuro delle donne nella Chiesa di Papa Leone. Una prima considerazione: il papato di Francesco ha aperto una crepa nel muro antico del ruolo delle donne che ha solo lasciato intravedere le possibilità, ma è rimasto solidamente in piedi. Grandi attese e grandi frustrazioni. Un esempio la commissione per studiare la presenza delle donne diacono nella Chiesa, dopo 4 anni chiusa senza risultato. Un passo storico è stato il diritto di voto delle donne nel sinodo sulla Sinodalità. L’elezione di donne in ruoli importanti in Vaticano è servita a Francesco per riformare, poco, la curia romana. La prospettiva di Leone sembra ricalcare quella del suo predecessore: donne coinvolte in ruoli apicali sì, ma non ordinate perché «potrebbe rappresentare dei problemi per loro». Quindi invece di eradicare il clericalismo maschile lo si rafforza. E anche l’ultimo Leone, quello della Rerum Novarum, condannò l’emancipazione femminile. Le speranze nel nuovo papa comunque ci sono: è piuttosto giovane, ha vissuto nella Chicago della Women’s Liberation Union e forse questo lo può aiutare a comprendere che tutto l’impegno della Chiesa è segnato dalla più profonda delle ingiustizie, quella patriarcale. Altre testimonianze sul Fatto e su Repubblica raccontano di quando l’allora cardinale Prevost aiutò due giornalisti investigativi a smantellare una rete di pedofilia all’interno di un movimento di destra, Sodalizio di vita cristiana, che Papa Francesco sciolse poco prima di morire. Paola Ugaz è la giornalista che durante una delle prime uscite pubbliche del Pontefice gli ha regalato una sciarpa di alpaca delle Ande. Fu lei, col collega Pedro Salinas, a scoperchiare le malefatte del Sodalizio nato nel 1971 e ben protetto dalla borghesia peruviana e in alte sfere ecclesiastiche, non tutte: i due giornalisti finirono a processo e qui entrò in scena padre Robert, allora a capo della commissione di ascolto delle vittime di abusi che, insieme ad altri tre prelati, firmò una lettera di solidarietà per i due giornalisti. La fine è nota, il processo contro i due finì nel nulla, Papa Bergoglio mandò altri suoi investigatori specializzati, alla fine sciolse il Sodalizio che oltre alla pedofilia aveva al suo attivo anche la spoliazione di beni dei suoi affiliati.
Per intanto Papa Prevost non si è discostato dalla linea dei predecessori sulla famiglia che è quella composta da uomo e donna e su questo nessuna novità. Intervistata sul Giornale di sabato, la storica della Chiesa Lucetta Scaraffia spiega: «Francesco la pensava allo stesso modo, tanto è vero che non ha mai fatto nulla per cambiare la morale sessuale, la dottrina. Ma a parole Bergoglio non avrebbe mai detto la frase che ha detto questo Papa poiché avrebbe attirato critiche alla sua immagine. Francesco ha costruito il suo Pontificato sull’ambiguità, sull’essere progressista senza esserlo. Faceva capire che sarebbe stato favorevole a cambiare le cose ma non lo ha mai fatto. E anche sulla benedizione alle coppie gay ha detto che avrebbe benedetto le persone non le coppie. Una benedizione non si nega a nessuno, si è sempre fatto».
Dal mondo
Il coraggio delle donne
Mozhgan Eftekhari era poco più che una ragazzina quando rimase incinta della figlia Mahsa e come spesso succede quando la differenza di età è proprio poca, si cresce insieme, ci si confronta, ci si sostiene l’una con l’altra. La sua bambina dagli occhi scuri, morta in seguito alle percosse della polizia morale per una ciocca di capelli uscita dal velo, è diventata una delle donne più influenti dell’Iran, il simbolo di una rivoluzione. Così la mamma racconta a Greta Privitera inviata del Corriere della Sera, la parabola breve della figlia, lo fa dopo tante incertezze e paure per possibili ritorsioni verso la sua famiglia, ma ha deciso così perché il ricordo è l’unica cosa che le consente di andare avanti. Mahsa non faceva politica, portava il velo sempre, per scelta. Voleva fare il medico per aiutare gli altri. Muore il 16 settembre del 2022, dopo tre giorni di coma. In suo nome scendono in piazza migliaia di ragazze che danno forma alla più grande rivolta che l’Iran ricordi, Donna vita, libertà. La foto di suo padre e sua madre che si abbracciano disperati nella corsia di ospedale costa il carcere alla giornalista che l’ha scattata. Ma intanto di queste donne il regime ha paura e anche se la repressione riempie le galere, Mahsa ha cambiato un pezzo di mondo.
Ninfe partigiane
Sul Sole 24 ore un bel pezzo di Roberto Bongiorni sulle partigiane ucraine nelle zone occupate dai russi che usano l’arte come arma: Mavka è una delle tre fondatrici del movimento di resistenza femminile Zla Mavka, oggi composto da circa 300 attiviste sparse nei territori occupati dalle forze russe. Questa donna, che prima della guerra faceva l’artista, ricorda bene l’8 marzo del 2023. Quando i soldati russi, nella piazza di Melitopol, con le uniformi impeccabili ed in mano ciascuno un mazzo di fiori, cercarono di omaggiare le donne ucraine, sperando in un gesto conciliatorio. Sortirono l’effetto opposto. «Volevamo ricordare loro che non sono a casa loro. Che questa è l’Ucraina e non sono i benvenuti». Pochi giorni dopo quel plateale rifiuto, cominciò a circolare un poster. Raffigurava una donna avvenente, con i capelli sciolti, che colpiva un soldato russo con un mazzo di fiori. «Non voglio fiori, voglio indietro la mia Ucraina!», recitava lo slogan. Nell’immaginario popolare le Mavki sono fate dei boschi, ninfe tanto belle quanto pericolose. Seducono l’uomo con il loro sguardo e lo uccidono. Le attiviste ucraine, però, non usano violenza. La loro arma è l’ironia. «Diamo fastidio agli occupanti. Tanto che fanno di tutto per individuarci. Offrono ricompense a chi ci tradisce», racconta Mavka. Che poi spiega le regole per mantenere la clandestinità. «Regola numero uno: non ci incontriamo mai. Neppure in posti sicuri. È troppo pericoloso. Non ci conosciamo di persona. Comunichiamo solo online, in modo anonimo, usando chatbot, social media e canali pubblici. Se qualcuna viene catturata, non potranno risalire a tutte le altre. Siamo partite dai volantini, poi i graffiti. Poi abbiamo stampato slogan e disegni sulle banconote russe, per farli circolare tra la gente». Queste coraggiose attiviste sono perfino arrivate a filmarsi con il volto coperto mentre bruciano bandiere russe. Nelle aree occupate operano anche i partigiani del movimento Atesh. Il loro compito è effettuare atti di sabotaggio, far esplodere depositi, colpire dove è possibile, far saltare in aria, come di recente, un tratto delle ferrovie usate dai soldati russi. Pur senza dirlo apertamente, Mavka è consapevole di quanto un graffito su un edificio simbolico possa demoralizzare i soldati con altrettanta forza. Quanto, anche senza ricorrere alla violenza, una presenza ostile, invisibile e onnipresente possa esasperare e demoralizzare. Le ninfe partigiane sono decise a fare in modo che i russi non si sentano a casa loro. A Melitopol, come in Donbass, negli altri territori e in Crimea, dove sono molto attive. Sanno che più passa il tempo, più la speranza si spegne. Gli ucraini che vivono ancora nelle zone occupate hanno assistito, nel 2022, alla liberazione di Kharkiv, Kherson e di altre cittadine.
Imprenditrici per forza
Su Avvenire un ampio servizio di Francesca Ghirardelli sulla condizione delle donne afghane. Secondo uno studio dell’Acaps di Ginevra, no profit che si occupa di analisi umanitarie, le donne sono protagoniste di uno sforzo titanico per sopravvivere e per farlo hanno moltiplicato piccole attività autonome. Le imprese femminili, registrate dall’Afghanistan Women’s Chamber of Commerce, sono quadruplicate, passando da 2.421 del 2021 al 9.162 del 2024. Si tratta di sartorie, tessiture, ricami, produzione casearia, sapone e spezie. Pur tra forti restrizioni, i taleban sembrano favorevoli all’imprenditoria femminile, tanto che sono stati aumentati i fondi per la formazione professionale. Ma le donne che lavorano regolarmente restano pochissime: 20 per cento nel 2021, 7 per cento nel 2024. E il 75 per cento degli afghani soffre la fame. Per Unama, missione di assistenza Onu in Afghanistan, si intensificano, comunque, le restrizioni dei diritti delle donne. Tra gennaio e marzo più di 180 persone, tra cui donne e ragazze, sono state frustate in pubblico. Poi c’è la piaga dei matrimoni forzati che in alcune aree sono aumentati del 60 per cento come esito della povertà estrema. Munisa 38 anni, 4 figli e un marito violento e tossicodipendente rinchiuso più volte, sommersa dai debiti e senza cibo, aveva deciso di dare in sposa la figlia maggiore, Deeba, dodicenne, per sopravvivere. Una ong italiana, Nove Caring Humans che ha attivato Feda (fondo emergenza donne afghane) , ha preso in carico la famiglia, saldato il debito e salvato Deeba. La direttrice di Nove, Livia Maurizi: «Un fondo per restituire futuro alle bambine che rischiano di essere cancellate». La pagina apre con una ampia intervista alla nuova ambasciatrice italiana a Kabul, Sabrina Ugolini. La sede di Ugolini in realtà è come per tutti i paesi occidentali temporaneamente a Doha, Qatar, dove si svolgono negoziati periodici con l’autorità de facto, cioè non riconosciuta ufficialmente. Si parla di diritti umani con i taleban? «Sempre. Cerchiamo di confrontarci su temi specifici e pragmatici di sviluppo del Paese. Ma ribadendo sempre la condanna dell’Italia alle sistematiche violazioni dei diritti umani. In sintesi: noi vi aiutiamo, voi riportate a scuola le ragazze. Nell’ultimo incontro, il delegato afghano ha detto che le donne hanno una certa libertà di movimento e di espressione come imprenditrici. E che c’è la consapevolezza che l’istruzione delle ragazze è un nodo che va affrontato. Va detto che il movimento talebano non è compatto: si sta facendo strada una componente più moderata. Aprire all’istruzione delle ragazze sarebbe dirompente».
Profughe in Pakistan
Avvenire riporta poi la testimonianza tradotta dall’inglese di Darya Akbari, giovane illustratrice afghana rifugiata in Pakistan con la prospettiva di essere espulsa all’improvviso. «Sono seduta in un caffè a Islamabad, il mio visto scade oggi, voglio respirare ancora un po’ di libertà, prima di tornare prigioniera a casa mia. Scrivo per dare voce a tutte le persone nascoste tra le colline in questa città. Non siamo numeri, siamo storie. Conosco persone che vagano tutto il giorno, senza cibo, sperando di non essere arrestate. E ragazze come me, istruite e ancora piene di sogni, terrorizzate all’idea di uscire. La mia tessera di rifugiata, un tempo simbolo di protezione, oggi se esibita è una condanna all’espulsione. Non siamo vittime, siamo sopravvissute. La nostra resistenza è silenziosa e potente. Con la cura, con circoli poetici on line, classi clandestine, cerchi di sorellanza con ago e filo. Voglio esistere senza avere paura. A chi sta leggendo dico: non voltatevi dall’altra parte. Raccolgo la mia borsa ed esco dal caffè. Le risate dei ragazzi ora mi sono estranee, come la pace».
La morte di Gaza
Aya Aahour, palestinese, è collaboratrice del Fatto quotidiano, ecco alcuni stralci della sua testimonianza su quanto sta succedendo a Gaza: «La guerra militare, come tradizionalmente intesa, ha esaurito tutte le sue opzioni. Di fatto, è finita militarmente da mesi. Quello a cui assistiamo oggi è uccidere per il gusto di uccidere, distruggere per il gusto di distruggere. Non si tratta di una guerra militare convenzionale volta a sconfiggere un avversario e a vincere; è piuttosto una guerra di sterminio in tutti i sensi… Lo scopo non è solo quello di distruggere le infrastrutture di Hamas, ma anche di facilitare le manovre delle truppe di terra in una campagna che segna un’espansione della violenza senza precedenti. Tutto questo si svolge sullo sfondo di un assedio che equivale a un crimine di fame. Dal 2 marzo nessun bene umanitario o commerciale è entrato a Gaza. La popolazione sta sopportando un’estrema privazione, senza accesso ai beni di prima necessità. Il pretesto di Israele per questa brutale campagna di sterminio è l’eliminazione di Hamas. Tuttavia, Israele sostiene che le capacità operative di Hamas sono state significativamente colpite. Ma l’obiettivo della guerra non è solo Hamas, ma l’intera popolazione civile».
Cinema e dintorni
Intervista sulla Stampa ad Alice Rohrwacher, che a Cannes presiede la giuria della Caméra d’Or, il premio destinato alla miglior opera prima. Tutte le presidenze delle giurie sono donne, a partire da Juliette Binoche, che guida la giuria che assegnerà il premio internazionale, la Palma d’oro. Le registe in concorso sono il 25 per cento. «Potremo dire che le cose sono cambiate quando non dovremo più parlare di questo argomento. Ma sono felice di far parte di questo cambiamento. Le donne si sono finalmente coalizzate, sbarazzandosi della logica della prima donna, strumento nelle mani di un patriarcato che ci ha fatto credere che le donne sono le prime nemiche delle donne ed è contro di loro che bisogna combattere. Io invece lotto perché ci siano sempre più registe portatrici di sguardi che arricchiscono tutti». Sul caso Depardieu: «Un esempio di come le parole trasformate in azioni facciano la forza. Ma tutto questo deve andare oltre il #metoo e riguardare tutti gli ambiti della società».
Ma dal cinema torniamo alla realtà ed è difficile mettere da parte i sentimenti per parlare della vicenda di Emanuele De Maria, il detenuto trentacinquenne, condannato a 14 anni e 3 mesi per l’omicidio di una donna a Castel Volturno, in libertà con permesso di lavoro dal carcere di Bollate che ha ucciso un’altra donna, Chamila Wijesurya, con la quale aveva una relazione, ferito un collega prima di togliersi la vita lanciandosi da una terrazza del Duomo di Milano. Dolore, sgomento e polemiche con il ministro alla giustizia Nordio intenzionato ad inviare gli ispettori negli uffici del tribunale di sorveglianza di Milano. Molti tentativi di capire e di interpretare, senza lasciarsi prendere da furori giustizialisti. L’ex direttore di San Vittore, Luigi Pagano, forte della sua decennale esperienza non ha dubbi e lo dice al Qn: «I permessi non sono misure buoniste ma necessarie e fondamentali per abbattere il tasso di recidiva e prevenire altri reati». Dello stesso avviso il magistrato Francesco Maisto, esperto di carceri e di misure alternative alla detenzione: senza di queste, in sintesi, ci sarebbe un aumento insostenibile del sovraffollamento con le inevitabili conseguenze. E anche Vittorio Feltri, sul Giornale, pur con tanti distinguo, ritiene che sia impossibile tornare indietro. Sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella fornisce un po’ di numeri: torna a delinquere il 69 per cento di chi sconta la pena tutta e solo in carcere, il 17 per cento di chi al contrario sconta parte della pena con le misure alternative, mentre torna a delinquere solo il 5 per cento di chi è stato ammesso al lavoro esterno. Ma nel corto circuito mediatico originato da un fatto come questo, c’è chi come il sottosegretario Del Mastro si scaglia contro i magistrati, non sapendo o forse dimenticando che dietro ogni permesso di lavoro c’è un lavoro di squadra fra carcere e magistratura. Sul Messaggero l’avvocato Francesco Caroleo Grimaldi suggerisce tempi più lunghi, iter riabilitativi e perizie psichiatriche per chi sia stato condannato per reati come il femminicidio e una attenta selezione dei posti di lavoro che il detenuto andrà a coprire: «Specie all’inizio – spiega l’avvocato_ sarebbe meglio scegliere un lavoro che non sia a contatto con terze persone perché si possono ricreare le stesse condizioni che hanno portato al precedente reato». Di tutt’altro parere Marco Travaglio. Secondo il direttore del Fatto quotidiano la pena va scontata fino in fondo e cita Beccaria sul concetto di certezza della pena. Se si applicano invece i benefici la pena non ha effetto deterrente. Sul Manifesto si può leggere un ritratto di De Maria scritto da Giacomo Spinelli che lo ha conosciuto in carcere: il mistero di un uomo che ha cercato in ogni modo di cambiare il suo destino, senza riuscirci. In tutto questo spicca la dignità del marito di Chamila che, ai giornalisti risponde pacatamente di aver perso una splendida compagna e madre di suo figlio e che non sa come andrà avanti senza di lei. Che l’ha amata e l’amerà sempre. E basta.
Ed è quello che si chiede, come sopravvivere, anche Chiara Tramontano, sorella di Giulia, uccisa nel 2023 dal compagno Alessandro Impagnatiello mentre aspettava un bambino. Intervistata da Candida Morvillo sul Corriere della Sera racconta il vuoto lasciato dalla sorella nella sua famiglia, i sensi di colpa perché da mesi non si parlavano sempre a causa di quel rapporto con Impagnatiello che a Chiara non piaceva e che Giulia difendeva ancora. E lo strazio della mancanza che accomuna le vittime collaterali.
Su tutti i quotidiani largo spazio e richiami in prima, per raccontare e commentare la condanna a 18 mesi di carcere (con sospensione della pena) per Gerard Depardieu per molestie sessuali nei confronti di due donne, una regista e una scenografa.
L’attore si è dichiarato innocente ma contro di lui hanno parlato molte testimoni. Oltre alla condanna e all’ineleggibilità, Depardieu è stato iscritto nel Fichet judiciaire, il registro degli autori di azioni violente e reati sessuali. Questo per consentire un maggiore controllo preventivo sui suoi comportamenti. Malgrado qualche commento sull’esiguità della pena, la sentenza è molto importante, interessante la sottolineatura riportata su Il Fatto che «il tribunale ha riconosciuto il principio di vittimizzazione secondaria per sanzionare i maltrattamenti subiti dalle due vittime in aula trattate da isteriche bugiarde, e piagnucolone da parte dell’avvocato della difesa, condannando l’attore al pagamento dei danni morali. I giudici hanno accolto la richiesta dei legali dell’accusa che avevano denunciato la brutalità e la misoginia di Jeremie Assous, l’avvocato di Depardieu: “un’apologia del sessismo”». Una strategia che forse non paga più, anche se è molto diffusa anche da noi, nelle nostre aule e che potrebbe incentivare le denunce da parte delle donne. Molti giornali hanno sottolineato che in difesa dell’attore protagonista del cinema francese sono scese in campo diverse attrici, fra loro Fanny Ardant e Brigitte Bardot, ma evidentemente queste difese d’ufficio non sono state apprezzate dal tribunale.
Fra chiese e farmacie
Editoriale su Domani di Ilaria Boiano di Differenza donna che sottolinea la gravità di quanto affermato dal ministro della Giustizia Nordio, che in poche parole invita le donne in pericolo a nascondersi in chiesa o in farmacia nel caso molto possibile che all’allarme lanciato dal braccialetto elettronico applicato al loro persecutore non corrisponda un immediato intervento delle forze dell’ordine. Questo, scrive Boiano, dimostra la profonda ignoranza rispetto ai doveri dello Stato in tema di prevenzione perché ancora una volta si capovolge la responsabilità della protezione. Una situazione individuale che la singola donna deve gestire come può. Quindi è l’ammissione che lo Stato non è in grado di garantire l’effettività dei suoi provvedimenti. Affermazioni offensive per le donne che denunciano. Ma c’è qualcosa di ancor più sottile e ben lo coglie Fabrizia Giuliani nel commento sulla Stampa a proposito dei liceali di Bassano del Grappa e alla loro chat, poi subito ritirata con tante scuse: «Davanti all’indicibile servono fermezza e responsabilità, a cominciare dalle istituzioni che dovrebbero sapere che non si può chiedere alle donne di salvarsi da sole andando in chiesa. Le donne si salvano solo se ad essere accolta e celebrata è la loro libertà, non la violenza che la annienta: se si comprende che non è una minaccia, ma il solo futuro possibile».
Delitti vicini
Intanto le donne continuano a morire. Nella settimana tre vittime in poche ore a Fregene, Civitavecchia e a Reggio Emilia. Daniela Coman Luminita, 47 anni, voleva lasciare il compagno Peter Pancaldi. Lui l’ha uccisa e ha confessato dopo un paio d’ore di interrogatorio. Un altro uomo, José German Valera Luna si è presentato lui stesso ai carabinieri di Civitavecchia, raccontando di aver ucciso la compagna Teodora Kamenova. Stefania Camboni, 58 anni, è stata uccisa invece nella sua villa a Fregene, forse nel sonno. Sotto accusa la compagna del figlio, Giada Crescenzi, che si trova ora in carcere.
Delitti lontani
Da settimane la procura di Pavia ha riaperto il caso della morte di Chiara Poggi, un delitto per cui sta scontando la pena nel carcere di Bollate, ma con permessi di lavoro l’allora fidanzato Alberto Stasi. Malgrado il tempo passato, la vicenda appassiona i giornali. Anche Domani in una intera pagina ricostruisce il passato e il presente del delitto di Garlasco. Che qui finalmente viene chiamato per quello che è, un femminicidio, definizione che ai tempi in cui fu commesso non era prevista. Ma oggi sì. Ormai, a detta di chi commenta, Piero Colaprico, che ha seguito la vicenda dall’ inizio fino alla sentenza della Cassazione, l’indagine si sta trasformando in una fiction insensata in cui vengono trascinati in primo piano non tanto il nuovo indagato, Andrea Sempio, ma amici, cugine, parenti vari. «Sono colpito dalla tendenza di rimettere in campo delitti che hanno alimentato l’emozione popolare …quasi che non si volesse mettere la parola fine», dice lo scrittore di gialli Maurizio De Giovanni alla Stampa.
Lo sport
Jasmine nella storia
Sotto lo sguardo benevolo del presidente Mattarella e di sua figlia Laura che sorridono dalla tribuna, Jasmine Paolini batte la statunitense Coco Gauff. Gli Internazionali di Roma tornano italiani dopo 40 anni. E c’è un’altra persona, oltre alla famiglia Mattarella, che ha portato fortuna a Jasmine ed è Raffaella Reggi, ex tennista e oggi commentatrice sportiva che 40 anni fa conquistò gli Internazionali a Taranto e che, intervistata dalla Stampa sabato mattina ha fatto gli auguri alla giovane collega. E Reggi, sempre con molto garbo, ha fatto notare pure che sarebbe ora di dare alla Paolini la stessa attenzione che si tributa a Sinner e a Musetti. I giornali che la trattano sempre un po’ così sono avvertiti. Per questo noi abbiamo deciso di dedicarle la foto di questa rassegna con alcune prime pagine dei giornali di domenica, anche se uscite il giorno dopo il periodo monitorato.
Su Tuttosport pagina intera dedicata a Silvia Salis, 39 anni, candidata sindaca di Genova con il centrosinistra, ex martellista e presidente vicaria del Coni. Malgrado le insulsaggini che le sono state riversate addosso da alcuni avversari (“Bella e basta”) racconta invece all’intervistatore come la mentalità da atleta con il suo impegno quotidiano, possa aiutare anche in politica perché porta la capacità di vedere lontano. Sua ispiratrice Kirsty Coventry, grande ex nuotatrice che sarà da giugno la presidente del Cio. Immancabili le domande su sport e maternità. Un po’ peggio va con le quattro astiose pagine che la Verità, venerdì e sabato dedica alla candidata genovese che un anno fa circa avrebbe investito e ferito una donna che stava attraversando la strada. Con precisione da verbale una pagina per ricostruire l’incidente e brutto quel titolo con la parola pirata, sia pure tra virgolette, che farebbe pensare a una fuga dal luogo dell’incidente della Salis, che non è mai avvenuta. Ma del resto così si fanno oggi le campagne elettorali.
Calciatrici
Sulla Stampa di giovedì ampia intervista di Giulia Zonca a Sara Gama, 36 anni, una vita per il calcio, capitana della Juventus Women, ma soprattutto colei che ha portato il calcio femminile al professionismo. Sulle maglie di saluto le ragazze della squadra la chiamano capitano: «Il linguaggio – commenta – plasma la realtà e declinare il mondo secondo più generi vuol dire dare più facce, includere. Capitana era preferibile, però se dicessi alle compagne capitano è sbagliato che reazione potrei avere? Quello è un gesto di affetto puro, di totale rispetto e me lo prendo. Per il resto serve pazienza, abitudine». Di fine carriera per le calciatrici che guardano al loro futuro un servizio sulla 27ora del Corriere della sera che racconta la storia di Alia Guagni del Como Women che si ritira dal calcio col suo curriculum vitae scritto sulla maglia. Alia, classe 1987, ha accettato di fare da testimonial a un’iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’incertezza che molte atlete affrontano al termine della loro carriera sportiva. Il formale passaggio al professionismo della serie A femminile scattato il primo luglio del 92 dovrebbe portare a considerare il calcio un vero lavoro, ma è ancora ben lontano dall’aver determinato un aumento tale degli stipendi da consentire alle ragazze di allenarsi con serenità, senza dover trovare altri lavori per arrotondare. Il Como Women da parte sua ha comunicato che d’ora in avanti accetterà solo sponsor che si impegnino ad assumere le proprie calciatrici al termine della loro carriera sportiva.
Questo è un lavoro di squadra, grazie quindi a Caterina Caparello, Gegia Celotti, Laura Fasano, Paola Rizzi, Luisella Seveso e Maria Luisa Villa