Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Giornale, Il Messaggero, L’Avvenire, Domani, il Fatto quotidiano, Il Sole 24 ore, Qn, Il manifesto, Libero, La Verità, La Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Il Corriere dello sport con uno sguardo al web
Dall’8 al 13 dicembre
Le firme in prima pagina uomini 1055, donne 270
Editoriali commenti analisi: uomini 174 , donne 31
Le interviste: a uomini 220, a donne 56
La settimana ha visto irrompere sulla scena mediatica il terremoto che sta scuotendo uno dei principali gruppi editoriali italiani, Gedi, con l’ipotesi della vendita di tutto il pacchetto a cominciare dai due quotidiani, Repubblica e la Stampa. Particolarmente incerto il futuro della Stampa, che pare non interessare all’armatore greco che invece si piglierebbe il resto degli asset. Chi segue la nostra rassegna sa che spesso abbiamo segnalato il quotidiano torinese per le sue buone pratiche sul piano di un’equa rappresentazione di genere. Questa settimana per esempio in prima pagina La Stampa nell’arco dei 6 giorni ha ospitato lo stesso numero di commenti maschili e femminili, un fatto eccezionale se confrontato con i competitor. Dal punto di vista del pluralismo di genere, una voce importante, che non va perduta.
Cronaca e violenza
Venendo alla cronaca in una delle poche settimane nelle quali la nostra rassegna non deve occuparsi di femminicidi commessi, partiamo una volta tanto da una buona notizia alla quale abbiamo dedicato la foto di apertura: sulla Stampa un ampio pezzo racconta dell’Università La Sapienza, ammessa come parte civile nel processo per il femminicidio di Ilaria Sula. È la prima volta che un ateneo avanza questa richiesta ed è la prima volta che viene accolta: rappresenta un altro passo avanti nella lotta contro la violenza sulle donne, come afferma la rettrice Antonella Polimeni che, da quando la studentessa iscritta alla triennale di Scienze statistiche della Sapienza è stata uccisa dall’ex fidanzato Mark Anthony Samson, questa battaglia ha deciso di combatterla fino in fondo al fianco dei genitori della giovane. La scelta di costituirsi parte civile assieme alle associazioni Penelope Lazio, Per Marta e per tutte, l’Associazione italiana vittime vulnerabili, l’Associazione Demetra, e Insieme a Marianna, all’inizio aveva creato qualche perplessità. «La decisione – afferma la rettrice – della Terza Corte di Assise del Tribunale Ordinario di Roma di ammettere Sapienza quale parte civile nel processo per il femminicidio di Ilaria Sula rappresenta un segnale di straordinaria rilevanza per il ruolo delle università nella società. Non riguarda solo la nostra vicinanza alla famiglia di Ilaria, a cui rinnovo il sentimento di affetto e solidarietà da parte dell’intera comunità Sapienza, ma anche il pieno riconoscimento del valore della missione educativa degli Atenei». Sull’ammissione commenta anche la filosofa Fabrizia Giuliani: è importante non considerare più la violenza di genere un fatto privato ma un fatto pubblico.
Una sentenza che ha fatto molto discutere purtroppo per altri motivi arriva dal tribunale di Venezia dove un collegio di sole donne ha assolto un uomo di 52 anni che aveva avuto una relazione durata 9 mesi con una ragazzina di 15. Le giudici che hanno letto in aula la motivazione, contestualmente alla sentenza, hanno infatti ritenuto inverosimile la versione della ragazzina, sottolineando il tenore dei messaggi che lei inviava all’uomo e alcune foto senza veli. Secondo il pm, invece, vi fu costrizione da parte dell’uomo, ma per il collegio giudicante il racconto dell’adolescente è stato un po’ costruito a favore dei genitori di lei che non avrebbero accettato una relazione della figlia con un uomo tanto più grande. Sempre Giuliani sulla Stampa nota che «la differenza di età non è un dato formale, burocratico, ma una disparità che rende impossibile parlare di consenso».
Sempre di sentenze controverse si parla a proposito della decisione di non procedere per le violenze in piazza Duomo dello scorso Capodanno. Lo annuncia il Giornale che apre con la foto benedicente di Vittorio Feltri condannato a pagare 20 mila euro di risarcimento per frasi razziste antislamiche pronunciare alla trasmissione di Radio24 La Zanzara . Sarebbero infatti giovani islamici, per il quotidiano milanese, gli autori delle violenze di Capodanno. La procura di Milano aveva ipotizzato che fosse un caso di “tahatrush games” una pratica di aggressione sessuale di gruppo, ma l’assenza di denunce formali da parte delle ragazze che si erano rivolte solo ai giornali e l’assenza di riprese valide per identificare gli autori, ha fatto sì che il procedimento sia stato archiviato.
A proposito di violenza di genere, dopo quella del Giulio Cesare, anche al liceo Carducci di Roma è apparsa una lista stupri con due nomi di ragazze scritti a pennarello e poi cancellati. Immediata la reazione del collettivo Asmara: non sono ragazzate ma sintomi di una società patriarcale e machista in cui i cosiddetti bravi ragazzi nascono, crescono e su cui si adagiano. Intanto la procura di Roma ha aperto un fascicolo.
Sempre a Roma una ragazza ha denunciato di essere stata violentata da tre uomini all’uscita della metro, fermata Jonio. La notizia viene data il 10 dicembre con ampio risalto dal Messaggero che però si mostra molto prudente, fra l’altro non ci sarebbero telecamere in quella uscita. Il Giornale invece non ha dubbi, gli stupratori sono senz’altro stranieri, sulle cui tracce sarebbero già i carabinieri. Sul luogo dell’aggressione è stata organizzata anche una manifestazione per chiedere più sicurezza a Roma. Poi la notizia è sparita dai giornali.
Sul Messaggero dell’11 dicembre due pagine sull’installazione “Benu”, posta all’ingresso del carcere di Rebibbia femminile, dell’artista Eugenio Tibaldi. Benu è una creatura mitologica, antesignana della fenice, simbolo di rinascita nell’antico Egitto. Sono state le detenute a collaborare con lo scultore in un lungo percorso di ricerca su forma e colori dell’installazione durato oltre un anno e mezzo. Benu sarà alimentata dall’energia di sette cyclette azionate proprio dalle detenute, come da loro richiesta. In settimana c’è stata l’inaugurazione alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell’ex ministra della Giustizia Paola Severino, presidente della Fondazione omonima e promotrice dell’iniziativa. Nelle stesse ore, purtroppo, una donna di 59, detenuta proprio a Rebibbia, è morta per overdose, mentre è stata ricoverata una sua compagna di cella. Ne danno notizia Qn e Libero. Il Giubileo dei detenuti è iniziato nel peggiore dei modi.

Infine, sul Corriere della Sera il racconto di Massimo Gramellini su un uomo che si è presentato dai carabinieri auto accusandosi di un reato di droga per farsi arrestare e allontanarsi da casa, dove temeva di picchiare (o peggio) la moglie per un sospetto tradimento. Meglio in prigione che assassino, meno male…
Politica
Tra l’8 e il 13 dicembre il racconto dei giornali italiani ruota in larga misura attorno a figure femminili, trasformate di volta in volta in protagoniste, simboli o bersagli politici. Al centro di questo intreccio c’è soprattutto Giorgia Meloni, raccontata come leader forte e vincente dalla stampa di destra e come figura sempre più incerta e contraddittoria da quella critica, stretta tra la fedeltà atlantica, l’Europa e l’ombra ingombrante di Donald Trump.
Il Giornale insiste su una narrazione celebrativa: Atreju viene descritto come il trionfo del nazionalpopolare, Meloni riceve il premio Margaret Thatcher (e idealmente il testimone della Lady di ferro) ed è rappresentata come una leader odiata dagli stessi “paradigmi culturali”, coraggiosa e coerente. In questo racconto non c’è spazio per dubbi o ambiguità: la presidente del Consiglio è saldamente alla guida del Paese e del suo partito. Una lettura opposta emerge su Domani, il manifesto e Repubblica, dove Meloni appare sempre più impegnata in un esercizio di equilibrismo difficile da sostenere. Da un lato non vuole rompere con Trump, che resta un riferimento per una parte del suo elettorato e del suo mondo politico; dall’altro non può permettersi di incrinare il rapporto con l’Unione europea, soprattutto su dossier cruciali come l’Ucraina, la spesa militare e l’uso dei beni russi congelati. Il manifesto la definisce una leader più prudente che ideologica, ben lontana dall’immagine di pasionaria che ama evocare, mentre Domani, con le parole durissime di Rino Formica, ex ministro socialista, arriva ad accusarla di tradire l’interesse nazionale se dovesse schierarsi apertamente con Trump contro l’Europa. Repubblica sottolinea giorno dopo giorno la fatica di tenere insieme queste due posture, raccontando una premier che “non ci dorme la notte” davanti alle scelte che l’attendono.
Accanto a Meloni si impone la figura di Arianna Meloni, indicata da più testate come la vera rivelazione di Atreju. La Stampa, Repubblica e Il Giornale tracciano il ritratto di una dirigente in ascesa, capace di tenere il palco e di parlare a un pubblico più ampio grazie ai temi della gogna social, dell’odio in rete e dell’identità digitale, come ad esempio ha fatto con Raoul Bova, ricattato per alcune foto in compagnia di una ragazza. Nei giornali conservatori Arianna è celebrata come una nuova leader naturale, mentre nelle testate più critiche la sua centralità viene letta anche come il segno di una politicizzazione familiare del potere. La presenza scenica, il sostegno della madre tra il pubblico, che in un’intervista al Corriere della sera rivendica la linea matriarcale della famiglia, e il ruolo da “trionfatrice” di Arianna contribuiscono a costruire un’immagine quasi dinastica.
Sul versante opposto dello spettro politico-mediatico si colloca Francesca Albanese. Il Giornale e Libero le dedicano una sequenza di articoli che assumono i contorni di una campagna denigratoria: viene presentata come relatrice ONU inaffidabile, accusata di antisemitismo, di simpatie per Hamas e di aver violato i codici di condotta delle Nazioni Unite. Il tono è sistematicamente delegittimante. Su Libero, Albanese diventa anche uno strumento per colpire un’altra donna, la relatrice ONU Reem Alsalem, attaccata in modo denigratorio e impreciso per le sue dichiarazioni sugli stupri del 7 ottobre, sui quali non ci sarebbero prove documentate da organismi indipendenti, con una banalizzazione evidente del tema della violenza di genere.
Ne emerge un quadro fortemente polarizzato, in cui le donne al centro della scena pubblica non vengono semplicemente raccontate, ma continuamente interpretate e giudicate. Giorgia Meloni è divisa tra esaltazione e sospetto, Arianna Meloni viene costruita come nuova protagonista del potere, Francesca Albanese come nemica da colpire, altre ancora come simboli di resistenza o di dissenso.
Esteri
Su Repubblica dell’8 dicembre il tono è quasi da cronaca giudiziaria privata, nel caso che coinvolge Karoline Leavitt, portavoce di Trump. La vicenda familiare – l’accusa della ex cognata brasiliana Bruna Ferreira, oggi in un centro di detenzione a rischio rimpatrio – viene raccontata come un “guasto in famiglia” che però assume subito una dimensione politica, perché tocca il tema della deportazione e dell’uso del potere. Il linguaggio è prudente ma allusivo: non condanna apertamente Leavitt, ma lascia emergere un’ombra inquietante sull’ambiente trumpiano.
Il Sole 24 Ore dell’8 e dell’11 dicembre adotta invece un registro diverso, quasi celebrativo, segnalando esplicitamente la centralità delle donne nella politica globale. In prima pagina e nei servizi interni domina la vittoria di Eileen Higgins, prima donna sindaca di Miami, descritta come evento storico e segnale di cambiamento in una roccaforte repubblicana. Il linguaggio è quello della svolta: “ha fatto storia”, “macchina politica”, “cambiamento”, con un’attenzione ai numeri della vittoria e al profilo riformista.
Accanto a lei compare una figura come Maria Corina Machado, vincitrice del Nobel per la Pace 2025 , oppositrice di Maduro in Venezuela. Ma Machado è una figura che divide profondamente il racconto mediatico. Il manifesto la definisce senza ambiguità “leader di estrema destra”, ultraliberista e favorevole alle privatizzazioni, e guarda con sospetto al Nobel per la Pace che le è stato assegnato, parlando di stupore e imbarazzo negli ambienti del Nobel Institute, dove ci si aspettava un riconoscimento a Gaza o al Sudan. Il linguaggio è critico, quasi polemico, e insiste sulla scorta militare Usa e sull’appoggio occidentale. Repubblica e Avvenire, al contrario, adottano un registro epico: la fuga rocambolesca dal Venezuela, la figlia che ritira il premio a Oslo, il discorso su democrazia e pace. Avvenire dà spazio anche alle organizzazioni che contestano il Nobel, mentre Repubblica costruisce Machado come figura della resistenza democratica .
Sempre su Repubblica, dalla Germania arriva il racconto dello sdegno contro Alice Weidel, leader dell’Afd, per i riferimenti alla Stasi e ai motti nazisti. Qui il linguaggio è stigmatizzante: Weidel viene presentata come simbolo di una deriva estremista che allarma l’opinione pubblica tedesca.
Altre figure femminili fanno però da controcanti simbolici. La Stampa racconta con empatia la storia delle tre suore squatter di Salisburgo – Bernadette, Regina e Rita, ultraottantenni – trasformandole in un racconto quasi fiabesco di resistenza e autonomia contro un’autorità percepita come ingiusta: hanno occupato il convento da cui erano state sloggiare per trasferirle on casa di riposo, con la complicità dei ragazzi del paese e del fabbro e sono diventate delle star di Instagram
Un’altra narrazione potente attraversa Avvenire del 10 dicembre, che racconta la maratona di Kish, in Iran. Le protagoniste sono le atlete che corrono senza velo. Il linguaggio è fortemente simbolico e politico: “il corpo delle donne come campo di battaglia”, “atto di resistenza”, “diritto”. Qui le donne non sono leader istituzionali ma soggetti collettivi di disobbedienza civile.
Di segno opposto è il linguaggio de La Verità, come sempre sarcastico, che il 10 e 11 dicembre utilizza figure femminili soprattutto in chiave polemica o denigratoria. Ursula von der Leyen è citata solo per un presunto incremento di paga (“Ursula s’aumenta lo stipendio”), Brigitte Macron diventa protagonista di un titolo volgare e provocatorio, mentre Christine Lagarde è liquidata come “la parigina miope”.
Sul fronte della repressione e del coraggio civile, il nome che ritorna con più forza è quello della premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi. Tra Messaggero, QN, Avvenire, Il manifesto e Domani, il suo nuovo arresto in Iran viene raccontato con toni drammatici e solidali. Avvenire parla di “determinazione incrollabile”, Domani sottolinea la forza simbolica dell’arresto trasmesso in diretta sui social, Il manifesto denuncia apertamente l’accanimento del regime contro le donne. Qui il linguaggio è unanimemente empatico: Mohammadi è costruita come icona della lotta per la libertà femminile, pagata con il carcere e la violenza.
Infine interessante il punto di vista di Victoria Lomasko, artista visuale russa in esilio volontario dall’inizio della guerra intervistata dalla Stampa. Famosa per i suoi reportage grafici, lamenta che gran parte delle istituzioni europee si rifiutino di collaborare con qualsiasi russo, compresi i dissidenti e il sostanziale provincialismo antirusso dei nostri intellettuali: «La maggior parte dei miei artisti preferiti, russi e sovietici, sono del tutto sconosciuti in Occidente nonostante il loro straordinario livello. Forse è l’eredità della guerra fredda, ma laddove io conosco tutti i movimenti artistici europei e i loro protagonisti i miei colleghi europei ricordano, al massimo, Kandinsky o Malevich».

Economia
Sul fronte economico il tema trattato a più riprese soprattutto da Il sole 24 ore riguarda la denatalità e il collegamento con lavoro e welfare. Un sondaggio realizzato da Noto fra giovani di età compresa tra 18 e 35 anni si chiede perché l’Italia sceglie di avere sempre meno figli. Interessante la comparazione con altri Paesi europei, Francia, Germania, Spagna e Uk. I giovani italiani sono i meno motivati ad avere figli. Il tasso di natalità è sceso all’1,18% e i nati fino ad agosto 2025 sono 229.731 , -5,4% rispetto ai primi otto mesi 2024, è invece 1,62 per la Francia, 1,1 per la Spagna, 1,35 per la Germania, e 1,41 per la Gran Bretagna. Alla domanda sull’intenzione di avere o non avere dei figli, il 20% degli intervistati italiani risponde che non ne avrà mai, mentre questo rifiuto netto scende all’8% nel caso degli inglesi, al 4% per gli spagnoli, al 10% per francesi e tedeschi. Il 78% degli italiani ritiene che tra i fattori che influiscono sulla decisione di non avere figli (o di non averne altri) ci sia il costo complessivo per crescerli. Gli intervistati francesi, tedeschi e spagnoli rispondono allo stesso modo nel 58% dei casi, pochi di più (il 62%) gli inglesi.
L’insicurezza del lavoro o il rischio di perderlo pesano per il 71% degli italiani, per il 56% dei francesi, per il 55% dei tedeschi, per il 50% degli spagnoli, per il 59% degli inglesi. Fra le altre ragioni che influiscono sulla decisione, per i giovani italiani ci sono la scarsa disponibilità di asili nido e di servizi per l’infanzia (57%), congedi parentali brevi o mal distribuiti tra i genitori (62%), difficoltà a conciliare lavoro e famiglia (77%). Per il 72% degli intervistati italiani la società non valorizza adeguatamente la genitorialità rispetto alla realizzazione personale e professionale (percezione che invece in Germania scende al 47%, al 46% in Spagna, al 43% in Francia, al 41% in Gran Bretagna). Nel suo commento Antonio Noto segnala che i giovani italiani percepiscono che quello che manca è una visione, al di là di bonus e mancette. Su questo tema ritorna in un’intervista alla Stampa il demografo Alessandro Rosina, che lancia l’allarme sulla sostenibilità del sistema e pone un ultimatum: «Abbiamo dieci anni di tempo per invertire la rotta del declino demografico attraverso politiche pubbliche attive e lungimiranti. Ma dobbiamo iniziare adesso, sennò il pericolo è il “degiovanimento”». Entro dieci anni oltre sei milioni di lavoratori andranno in pensione e non saranno sostituiti. «L’Italia è il Paese che più di tutti è entrato nel XXI secolo con pochi giovani e molti anziani. Siamo stati i primi, già a metà anni Novanta, ad avere più over 65 che under 15. Ora questo squilibrio si riflette in un indebolimento del ricambio nella forza lavoro: chi entra è sempre meno rispetto a chi esce. Il rischio non è che i giovani non trovino lavoro, ma che non ci siano abbastanza giovani per sostenere crescita, innovazione e sostenibilità del welfare. Senza investimenti immediati su competenze, valorizzazione del lavoro femminile, formazione tecnica e STEM, conciliazione e flussi migratori qualificati, avremo un vuoto non colmabile».
In un articolo di Eugenio Bruno, sempre sul Sole, si sottolinea un aspetto inedito del gender gap: in uno studio recente si illustra il paradosso nel mondo accademico: le donne arrivano al top con una probabilità del 19% inferiore ai colleghi. però impiegano otto mesi in meno negli avanzamenti. Sarebbe il prodotto di un’auto-selezione. Molte scienziate, infatti, escono dal sistema già nelle fasi iniziali (ad esempio per precariato, incertezza e carichi familiari) e quelle che restano sono tipicamente più motivate e disposte a investire di più nella carriera rispetto al collega “medio”. Molto di più.
Sconcertante infine il decimo rapporto delle libere professioni presentato da Confprofessioni. I liberi professionisti sono quasi a 1,4 milioni, pari al 5,8% degli occupati e al 27,1% del lavoro indipendente. Nel complesso, le donne sono salite a 510mila (+19,9% in dieci anni), arrivando al 37% del totale, con punte del 40% nel Nord Ovest. Sono più preparate, nel 2024 il 78,2% delle professioniste è laureata, contro il 59,6% degli uomini, ma guadagnano la metà: gli uomini dichiarano 54.480 euro mentre le donne 29.051, il 53% rispetto ai loro colleghi. Strano no?
Interessante poi su Domani il pezzo di Giulia Machina sulle nuove frontiere del marketing delle celebrities: le docuserie, ultima quella di Victoria Beckham su Netflix, prima di lei sono state protagoniste Taylor Swift, Beyoncé, tra le altre. Altro non sono che spot pubblicitari. Nel caso di Victoria ” Posh Spice ” il gioco mira a risollevare le sorti del suo marchio di moda che vanta 93 milioni di sterline di debito. Non sono documentari ma trucchi per rifarsi l’ immagine.
Lo sport
Inutile illudersi, sperando nel cambiamento auspicato. La cronaca sportiva italiana continua deliberatamente a ignorare la declinazione al femminile, come se i clamorosi successi delle nostre atlete in questi ultimi anni siano un accessorio di cui si può serenamente fare a meno. Nella settimana appena conclusa dobbiamo solamente accontentarci di due lampi nel buio, troppo poco per pensare che finalmente si sia raggiunta un’effettiva parità nel mondo sportivo. Il primo lampo è quello della diciannovenne Sara Curtis alla quale i giornali generalisti e sportivi hanno dedicato (bontà loro) investimenti significativi grazie alla messe di medaglie (un oro, un argento e due bronzi) che la cuneese ha conquistato agli europei in vasca corta a Lublino. La Gazzetta dello sport fa un significativo sforzo arrivando addirittura a definirla ragazza copertina sottolineando il piglio, la personalità spiccata, la testa di una campionessa e un talento innato. Lei che è stata una sorpresa prima, una promessa poi oggi è diventata una certezza. E urla felice dopo l’oro: «Mamma ce l’ho fatta».
L’altro lampo è quello di Lindsey Vonn, 41 anni, un mese e 25 giorni che a St. Moritz ha vinto la discesa libera, 83* successo della sua inimitabile carriera, 6 anni dopo il suo ritiro dalle competizioni, un bruttissimo incidente e un’operazione al ginocchio con una tecnica innovativa che l’ha dotata di una protesi al titanio e 5 chili in più di massa muscolare. Peccato sulla Stampa dover leggere osservazioni sul suo “tono civettuolo”, “sugli amori sbagliati” e sul fatto che la sua rinascita dipende dalla passione assoluta per lo sport «che ad esempio condivide con Jannik Sinner, sciatore prima di diventare tennista, uno dei suoi amici vip». Ma non è vip pure lei, anzi da molto più tempo e con molte più imprese di Sinner? Boh. Se rimaniamo nell’ambito sciistico l’indicazione di Federica Brignone portabandiera della nostra delegazione alle Olimpiadi Milano Cortina fa credere che la nostra pluricampionessa possa essere effettivamente al cancelletto di partenza delle gare, mentre per quanto riguarda Sofia Goggia si spera sempre che possa ritrovare una forma competitiva.

Le altre notizie che val la pena sottolineare sono a cavallo fra sport e cronaca. Per esempio la Gazzetta per due giorni consecutivi segnala la brutta storia del calciatore del Cagliari Michael Folorunsho accusato di aver insultato pesantemente con gesti inequivocabili la mamma di Mario Hermoso della Roma per il quale però il giudice non ha richiesto un supplemento di indagine e la Procura FGCI con il codice attuale (che persegue solo le bestemmie) non può intervenire. L’articolo 61 del codice di giustizia sportiva prevede infatti che possa essere usato limitatamente ai fatti di condotta violenta o gravemente antisportiva concernente l’uso di espressioni blasfeme non viste dall’arbitro o dalla Var. Ricordiamo che questa mancanza di provvedimenti avviene a due settimane dalla presa di posizione dei calciatori che si sono segnati il volto di rosso contro la violenza sulle donne. Sbotta Evelina Christillin per 9 anni nel consiglio UEFA: è una roba da Medioevo, bisogna al più presto cambiare il codice perché queste cose non restino impunite. In questa battaglia servono gesti forti anche da parte degli uomini. Le fa eco l’ex calciatore Massimo Mauro: il mondo del calcio e’ ancora maschilista.
Ancora, Libero e La Stampa sottolineano il pasticcio della Fifa che ha scelto la partita Egitto-Iran del 26 giugno a Seattle come “Pride Match” dei mondiali di calcio 2026, un incontro per promuovere i diritti della comunità Lgbtq+. Peccato che sia in Egitto che in Iran l’omosessualità è perseguita e punita dalla legge. La partita si dovrebbe tenere alla vigilia dell’anniversario dei moti di Stonewall (evento considerato simbolicamente come il punto di inizio del movimento di liberazione omosessuale contemporaneo in tutto il mondo) e coinciderà con il weekend del Pride a Seattle. Di fronte a questo intoppo diplomatico come se ne uscirà?
In ambito tennistico sollevano polemiche le dichiarazioni della bielorussa Aryna Sebalenka, numero uno del ranking Wta che si oppone alle atlete trangender: «Non ho nulla contro di loro – dice – ma una donna lavora tutta la vita per raggiungere i propri limiti e poi deve affrontare praticamente un uomo biologicamente più forte. Non sono d’accordo con questo genere di sport». La stessa Salalenka si è scontrata con l’ucraina Marta Kostynt per il livello di testosterone nelle atlete e sfida Nick Kyrgios nella quarta edizione della battaglia dei sessi. Tuttosport segnala con tanto di foto in prima pagina la decisione della tennista francese Ocean Dodin, 29 anni, al tramonto dell’attività agonistica che ha deciso di intraprendere una nuova strada professionale diventando la prima giocatrice attiva nella Wta a produrre contenuti su Onlyfans, piattaforma ad alto tasso di contenuti sessuali a pagamento. Commenta il giornale: il tennis diventa strumento per fini e valori che nulla hanno a che vedere con ciò che sta alla base dell’attività sportiva. Infine, ma solo nella cronaca di Milano di Repubblica, si parla della squadra di calcio a 5 Be team che include dodici uomini e donne trangender fra i 17 e i 40 anni. La squadra nasce all’interno dell’associazione Open Milano che ha l’intento di promuovere l’inclusività nello sport. Al momento non è ammessa a nessun campionato ma la speranza è che prima o poi ci si riesca.
Fronte interviste: sulla Gazzetta ce n’è una a tutta pagina a Nadia Padovani vedova di Fausto Gresini due volte iridato in moto GP che dopo la morte del marito e una carriera da infermiera ha deciso di assumere la guida del team. «A volte nei box – dice – arrivano interlocutori che parlano solo con i colleghi maschi, all’inizio mi dispiaceva, adesso non ci faccio neanche più caso. Che sia una donna a gestire il tutto credo abbia la sua importanza. Una donna è più empatica, sono un po’ la mamma della moto Gp». Sul Corriere dello sport c’e spazio per Dorotea Wierer che a 35 anni torna alla vittoria sorprendendo anche se stessa. «Quando arriverò all’ultima gara spero di non farmi sorprendere dall’emozione. Dopo vorrei apprezzare la vita senza impegni sportivi e la valigia pronta». Nei suoi orizzonti c’e anche la maternità. Alle giovani dice: «Fate il vostro percorso senza farvi mettere troppa pressione e farvi condizionare dai risultati». Sul Corriere dello sport parla Sandra Michelini, l’unica donna tecnica nella nazionale maggiore di nuoto. «Magari sono io che ho un carattere particolare ma non faccio caso al fatto di essere l’unica». Su Qn a parlare è anche Sara Errani che a 38 anni preannuncia che il prossimo anno continuerà in doppio con Jasmine Paolini e con Andrea Valvassori.
Piange il capitolo editoriali: qui c’e solo da rimarcare l’intervento in prima pagina della vice direttrice della Gazzetta dello sport Arianna Ravelli sulla F1.
Per ultimo e solo per dovere di cronaca abbiamo intercettato e non manchiamo di notarle limitatissime segnalazioni per il volley con Scandicci e Conegliano al mondiale per club, per Chieri outsider nel campionato italiano, per Paola Egonu atleta dell’anno ai Gazzetta sports Awards e per la regina del mezzofondo di atletica Nadia Battocletti in cerca il bis agli Europei di cross a Lagoa in Portogallo.
Non resta che accontentarci…
Questa rassegna è frutto del lavoro di squadra di Barbara Consarino, Paola Rizzi, Luisella Seveso, Maria Luisa Villa, Laura Fasano, Caterina Caparello, Elisa Messina.