Quella della violenza alle donne è una questione tanto antica, quanto delicata e spinosa: non è un male moderno, ma è così radicato nella tradizione e nella mentalità del passato da poter essere definito a buon diritto “storico”. Per questo, vale la pena ricordare una delle causes célèbres del Seicento, quella della pittrice Artemisia Gentileschi, vittima di stupro da parte del suo maestro Agostino Tassi, sia per portarne ad esempio il coraggio, sia per mettere in evidenza gli attimi terribili che vive una donna quando e mentre è vittima di violenza, lesa nella sua dignità e lacerata nella sua più profonda intimità. Del processo che ne seguì è rimasta esauriente testimonianza documentale che colpisce per la crudezza del resoconto e per i metodi inquisitori del Tribunale (“Atti di un Processo per Stupro” a cura di Eva Mencio, 2004). Artemisia, per esser creduta, si sottopone alla “Tortura della Sibilla” e questo aggiunge infamia all’infamia patita.
Ovviamente, durante il processo, Artemisia fu dipinta come donna di facili costumi: ancora una volta, come sempre, la colpevole dello stupro è la donna, che non ha saputo o voluto evitarlo.
Le cose, ieri come oggi, non sono cambiate: emblematiche le parole della difesa degli imputati nel processo per stupro del 1975, noto come Massacro del Circeo: “se questa ragazza…si fosse stata a casa…l’avessero tenuta presso il caminetto…non si sarebbe verificato niente”.
La violenza alle donne, dunque, è un problema storico e culturale al tempo stesso, nonché di discriminazione di genere.
Anche spostando il piano dall’ambito sociale-esterno a quello domestico-interno, i termini si ripropongono con lo stesso cliché. Una sentenza dell’aprile 1994 definisce ardua l’ipotesi di violenza sessuale tra coniugi, in caso di coito orale, in quanto la donna avrebbe potuto in ogni caso facilmente reagire e sottrarsi al compimento dell’atto da lei non voluto.
In quell’ “avrebbe potuto” e in quel “non voluto” ritorna, attraverso i secoli, l’eco delle parole di Artemisia, “colpevole” di non aver saputo o voluto evitare lo stupro e, per questo, disposta alle torture pur di provare il contrario. Si aggiunga, nella sentenza del 1994, l’aggravante della violenza tra pareti domestiche, la più difficile da dimostrare e anche da denunciare. La famiglia è il luogo in cui i diritti più difficilmente si fanno valere, perché confliggono o si confondono con i sentimenti. Non solo. In questo contesto, è più forte la difesa ad oltranza delle convenzioni e del cosiddetto perbenismo, così come è più accentuato il sovvertimento dei sentimenti: è la donna, vittima di violenza, a vergognarsi, a sentirsi in colpa piuttosto che il suo carnefice. Questo paradosso ci porta al nodo della questione:l’incapacità delle vittime di denunciare l’accaduto.
E allora, innanzi tutto e sopra tutto, bisogna riflettere sul fatto che la prima forma di difesa deve partire dalle donne, capire poi che la violenza è una crudele binomio di vittime e di carnefici, dare infine una risposta sul perché si sia carnefici e sul perché si sia vittime. Spesso accade che sia la vittima a giustificare per prima il carnefice ed è quindi la scelta del tipo di vittima che può favorire la violenza: chi fa violenza intuisce o conosce la debolezza della vittima, sa che essa non reagirà, tendendo così a manipolarla e a soggiogarla, soprattutto quando la violenza avviene tra le pareti domestiche, dove tutto, purtroppo, pare lecito. Questo è quanto si apprende dall’esperienza maturata come legale di centri antiviolenza o presso sportelli di aiuto a donne vittime di violenza.
Se si comprende oggettivamente questa verità e la si accetta con piena consapevolezza, allora sarà più facile per la donna denunciare la violenza e il violentatore e spezzare, così, l’infernale relazione “vittima-carnefice”.
Rimane comunque un fatto incontrovertibile: la violenza continua ad essere un problema, oltre che storico, anche, e in egual misura, culturale. La maggior parte degli episodi non viene denunciata perché vissuta in un contesto culturale maschilista in cui la violenza domestica non è sempre percepita come crimine e in cui le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza stessa. Allora è proprio la vittima che deve prendere consapevolezza del proprio diritto alla dignità, al rispetto, alla salute e cominciare a cambiare atteggiamento, interrompendo il “ritmo della danza”, “cambiando il passo”, cercando innanzi tutto in sé le risorse per non subire più violenza, chiedendo aiuto per uscire da una prigione invisibile senza farsi fermare dalla paura di reagire o di parlare.
La libertà femminile parte infatti da una profonda ricerca di sé ed in sé. Virginia Wolf ne “Le Tre Ghinee” invita a “pensare e pensare” e a scoprire le nostre “oscure emozioni”, “perché quella paura e quella rabbia impediscono una vera libertà tra le pareti domestiche…” e, aggiungiamo noi, in un mondo che, invece, dobbiamo poter sentire nostro e in cui poter dire convintamene: “sto bene con me stessa e con gli altri”.