Quando Francesca Ghio ha concluso il suo intervento in consiglio comunale a Genova, il 26 novembre scorso, intervento con il quale ha raccontato le violenze fisiche e psicologiche subite quando aveva 12 anni da parte di un amico di famiglia, la reazione dell’aula è stata il silenzio. Non un silenzio di sconcerto ma un silenzio di indifferenza. Lo stesso atteggiamento con il quale si stava affrontando, d’altronde, il tema della violenza di genere con la discussione di un ordine del giorno presentato, manco a dirlo, da un’altra consigliera.
La reazione apatica alla drammatica testimonianza di Francesca Ghio – che però nelle ore successive sarebbe diventata il primo titolo di tanti siti e quotidiani – non è stata molto più virtuosa. Io stessa rientro nell’insieme dei colleghi che, dopo aver assistito all’intervento, si sono chiesti: «Ma non sta parlando di sé, vero?», «E’ una cosa teatrale» e, in seconda battuta, «Sarà vero?».
E se possiamo, forse, auto assolverci dall’essere rimasti incastrati nell’automatismo della vittimizzazione secondaria nel nome dell’amor di cronaca e della ricerca della veridicità dei fatti – chiedersi quali siano i contorni e la consistenza di una simile esternazione pubblica è non solo legittimo ma necessario – tuttavia, quei dubbi, quei sottesi giudizi, quell’esigenza di “essere proprio sicuri”, sono stati solo le prime fasi di un meccanismo radicato e che, mai come oggi, rende imprescindibile una riflessione sulla narrazione delle violenze. Rende imprescindibile fare riferimento alla deontologia e a carte come il Manifesto di Venezia.
Quando abbiamo chiesto a Francesca Ghio se avessimo capito bene, se fosse proprio lei la 12enne del racconto, la consigliera ha risposto: «Importa?». E se ovviamente, da un punto di vista giornalistico, importa, la realtà è che non avrebbe dovuto importare perché quella esperienza è un emblema, un paradigma, è la concretizzazione di un fenomeno diffuso.
Come un’emblema e un paradigma è anche la reazione dei media, della politica e del pubblico a quella testimonianza e, in seconda battuta, al modo con cui Francesca Ghio, femminista di sinistra, ha scelto di continuare a parlare dell’argomento. E’ lei stessa a raccontare che, uno dei motivi per cui fino a oggi non aveva rivelato a nessuno quegli episodi, era stato determinato dal disgusto e dal distacco che percepiva nelle persone con le quali accennava il discorso. Esattamente quello che si è verificato il 26 novembre in consiglio comunale, quando quasi nessuno dei suoi colleghi, maschi e femmine, di centrodestra e centrosinistra, ha ritenuto di rivolgerle, in privato ancor prima che in pubblico, una parola di solidarietà.
Alcuni fra loro mi hanno confessato di essersi sentiti in difficoltà: «Temo di sbagliare a dirle qualcosa», «Non so neanche io come comportarmi». Ma l’inadeguatezza, la difficoltà a vivere l’empatia nei confronti di chi ha subito una violenza di questo tipo, è comunque un passo avanti rispetto al giudizio e alla messa in dubbio del racconto. «Perché non ha denunciato quando è successo?» si è domandato qualcuno, negli stessi ambienti. «Perché a 12 anni non sapevo neppure cosa fosse una denuncia», ha detto chiaramente Francesca Ghio. E non è neppure quello il punto, visto che una donna ha il diritto di denunciare e di non denunciare per 250 milioni di motivi. Peraltro la consigliera ha dichiarato che, per essere bandiera e sprone fino in fondo, sì, farà il nome dello stupratore alla procura, anche se ormai quei fatti sono abbondantemente prescritti.
Ad ogni modo la vittimizzazione secondaria, unita allo sminuimento della donna, non finisce nel momento in cui la politica fa tutto quello che è in suo potere per rendere ancora più significativo e concreto il suo gesto – spiegarlo, rispiegarlo, collaborare con la giustizia – ma prosegue nel momento in cui decide di condividere sui social il contenuto, o meglio parte del contenuto, della telefonata avuta dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni.
In alcuni ambienti del mondo dell’informazione e del mondo della politica, per non parlare della selva di reazioni da parte dei lettori sui social, le modalità che Ghio ha scelto per parlare di quel confronto sono state definite “scioccanti”. Non tanto per lo sgarbo istituzionale, tutto sommato oggettivo, quanto per il contenuto dei messaggi che la consigliera ha recapitato a Meloni.
Riporto alcune delle frasi: «Cara presidente Meloni, Ti ringrazio per la vicinanza ma se ho parlato, non è per avere supporto morale. La mia morale è solida e alle lacrime ci pensano le mie sorelle». E poi «‘Sono madre’, mi ha detto al telefono la premier – racconta Ghio – sono madre anche io e lotto per mia figlia e anche per la sua. Dire a me, a Gino (Cecchettin ndr), a Chiara (Tramontano ndr) a tutti cuori frantumati e le ossa rotte che vi dispiace, serve solo a voi stessi per sentirvi meglio con quello che avete o non avete fatto. A noi serve un cambiamento». Poi il passaggio più duro: «Se sono morta a 12 anni è anche per colpa di persone come lei, che pur avendo il potere tra le mani, pur avendo gli strumenti per cambiare, scelgono di guardare da un’altra parte» e poi la richiesta, concreta, «dell’attivazione di corsi di educazione sessuo-affettiva per i giovani e le giovani».
Chi pensa che Francesca Ghio non avrebbe dovuto scrivere quel post, in fondo, mette in dubbio il suo stesso diritto a fare politica. Le modalità possono essere condivisibili o meno, ma il suo obiettivo – lo ha detto Ghio stessa – adesso, è sfruttare la ribalta mediatica per dare risalto a determinati messaggi, non per farsi compatire. E chi pensa che Francesca Ghio avrebbe dovuto “essere più gentile” con una delle poche donne che – da madre a madre – le hanno rivolto solidarietà, non prende in considerazione la valenza politica di non accontentarsi di quella solidarietà, ricevuta da chi ripete di voler essere chiamata “il presidente” e che rappresenta una visione per tanti versi opposta su un ambito come quello della difesa dei diritti di genere