Ho sempre associato la figura di Papa Francesco al populismo ed è stato il dibattito pubblico che si è aperto con la sua morte a spingermi ad approfondire questo nesso, soprattutto alla luce delle reazioni negative che ha innescato in persone a me vicine per visione politica e per affetto. Qui propongo un punto di vista laico, femminista e non eurocentrico sul perché credo che Bergoglio possa essere definito populista, con quale significato e perché ha sfidato i limiti della nostra azione politica.
A farmi venire alle labbra l’aggettivo ‘populista’ nel pensare a Papa Francesco è stato innanzitutto il suo rapporto diretto e carismatico con un “popolo” che, proprio grazie al rispecchiamento nella sua figura, poteva pensarsi come unico, unito e indifferenziato, non diviso al suo interno tra uomini e donne, tra poveri e altri poveri, tra giovani e vecchi, tra abili e diversamente tali, tra eterosessuali e non eterosessuali, e via così. Non era quindi l’impressione di una sua inautenticità e neppure l’idea che nascondesse un’intenzione manipolatoria delle masse – cioè l’accezione prevalente di populismo nel nostro immaginario. Da non esperta di cattolicesimo mi ero anzi fatta l’idea che proprio la sua autenticità fosse la chiave di un consenso popolare sconosciuto ai suoi più recenti predecessori, elemento non secondario nel consentirgli di accedere alla posizione più alta di potere nella gerarchia della Chiesa cattolica. Supponendo, però, che a questa posizione fosse arrivato non solo grazie all’autenticità del suo messaggio evangelico ma anche grazie a un’abilità politica. Una capacità “di stare nel mezzo”, come la definisce Paolo Galassi, storico e studioso dell’immigrazione italiana in Argentina, sul quotidiano Domani.
Una posizione mediana nella gestione del potere all’interno della Chiesa che sembra aver generato delusione tanto nelle attese dei suoi settori più conservatori quanto in quelle dalle posizioni più progressiste. Nei giorni dopo la morte di Bergoglio in molti hanno notato come alle iniziali aperture sull’omosessualità e sul ruolo delle donne nella Chiesa e nella società non siano seguiti atti sostanziali, ma è stata anche visibile la frustrazione e lo scontento manifestato dalle rappresentanze del cattolicesimo reazionario.
Il Papa populista
Tra le critiche più argomentate all’associazione tra Bergoglio e il populismo vi sono quelle che riconducono analisi come quella dello storico Loris Zanatta su ISPI a una visione eurocentrica, in cui il paradigma delle democrazie liberali verrebbe applicato in modo acritico con la conseguente incomprensione o delegittimazione di altri contesti sociali e politici, come quello da cui Bergoglio proviene. Una critica di cui tenere conto.
Anche adottando uno sguardo non eurocentrico, tuttavia, la definizione di populista per Bergoglio non sembra così fuori luogo; altri autori suggeriscono di leggere questa categoria alla luce della commistione tra politica e religione che caratterizza l’Argentina e più in generale l’America latina.
«I populismi latinoamericani […] possono essere intesi solo come continuità, dislocazione e ricostituzione dell’immaginario carismatico cattolico di tipo ecclesiale così come è stato costruito in America Latina sotto la dominazione iberica e cristiana fino all’inizio del XIX secolo e dalle invenzioni degli Stati nazionali sotto la dominazione papale e romana» scrivono i sociologi argentini Juan Cruz Esquivel e Fortunato Mallimaci, rinforzando il concetto con una citazione da un altro sociologo che ha lavorato sul concetto di “modernità dislocate” (ovvero la modernità non è solo quella di matrice occidentale, ogni paese ha la propria), Shmuel Eisenstadt, che scrive: «il populismo svolge – in America Latina – un ruolo chiave di strutturazione della sfera politica e di ricostituzione delle identità collettive a livello nazionale, ben oltre il ruolo che tali forme di leadership e movimenti hanno svolto in Europa occidentale». Un populismo che affonda, in queste analisi non eurocentriche, nella nascita deli stati nazionali nella parte di mondo in cui Bergoglio si è formato e che ancora si concretizza nella confusione tra politica e religione che caratterizza, scrivono, l’azione dei movimenti sociali che accompagnano le attuali iniziative cattoliche e papiste in America Latina e nei Caraibi.
Il Papa, noi, la forza degli affetti.
Su questa confusione la mia formazione politica accende un segnale di allarme, non perché io sia sostenitrice delle democrazie neoliberali, ma perché un filo rosso fatto di memorie e microstorie, nutrito da infiniti incontri e letture, mi allaccia alla tradizione anticlericale che risale il fiume del tempo storico almeno fino a Mazzini. Nella mia famiglia, per dire, si tramanda oralmente la terribile sorte della prozia morta dissanguata per aborto dopo essere stata messa pubblicamente alla gogna dal prete del paese per la relazione che aveva con un uomo a cui non era sposata.
Non è solo per motivi viscerali che non riesco a isolare il Papa Francesco che reclama dignità per gli oppressi, accoglienza per i migranti, pace tra i popoli e rispetto degli ecosistemi dal Papa Francesco che definisce l’omosessualità un peccato, l’aborto un assassinio, l’analisi degli elementi culturali che determinano la declinazione del sesso biologico come un elemento pericoloso per il benessere degli esseri umani. Questi aspetti si tengono insieme in un tutto che è la dottrina di un’istituzione gerarchica rispetto a cui mi penso in termini politici, ovvero in termini antagonistici o di alleanze circostanziate – quelle che si stringono in virtù di obiettivi specifici per modificare i rapporti di forza, come ad esempio è accaduto tra mondo cattolico e laico durante la Resistenza o nel Movimento Noglobal.
Chi rivendica una lettura del mondo in termini di classe, di genere, di eredità coloniali, eccetera, dovrebbe percepire uno scarto, mi sembra, rispetto all’immaginario carismatico cattolico che, a mio parere, si è fatto corpo in Papa Francesco. In questa lettura il “popolo” è un campo attraversato sia da una tensione solidale che dalla conflittualità che si genera dalla differenza di status e nella lotta per l’accesso alle risorse, variabili anche all’interno della macrocategoria “oppressi”. Nella mia cultura le condizioni di unità tra gli oppressi sono materiali, non trascendentali.
Resta infine aperta la questione del perché Bergoglio abbia fatto breccia in tanti cuori, anche quelli che condividono con me quel filo rosso. Può esserci utile l’analisi di Luciana Cadahia, filosofa cilena con posizioni contigue a Bergoglio, il cui lavoro teorico indaga i legami, esistenti e possibili, tra populismo e femminismo: un ossimoro per la mia formazione culturale e politica, che tuttavia stimola il pensiero.
Il suo suggerimento è tenere a mente la doppia tensione del populismo: quella reazionaria e quella emancipatrice. «Queste due pulsioni non sono altro da quello da cui ci metteva in guardia Gramsci quando ci parlava della coesistenza contraddittoria di forze reattive e emancipatrici nella cultura popolare», scrive. Suggerisce, inoltre, che la vitalità e la forza del populismo sia nel fondare una scena collettiva in cui gli affetti non sono rimossi, in cui anzi mostrano il loro potere trasformativo. Una forza che hanno avuto ideologie come il comunismo nel secolo scorso, che hanno avuto il femminismo e i movimenti antiautoritari negli anni Sessanta e Settanta, che i nostri discorsi basati sui diritti e il nostro antagonismo di piazza forse hanno perduto
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