Così Meloni scippa le parole del femminismo per promuovere il patriarcato

La filosofa Giorgia Serughetti nel suo libro “Potere di altro genere" spiega perché il femminismo non può essere di destra e come la destra si appropria e stravolge le parole d'ordine del femminismo.

Così Meloni scippa le parole del femminismo per promuovere il patriarcato
Da governo.it
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Paola Rizzi Modifica articolo

4 Giugno 2024 - 18.49


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Come maneggiare la novità di Giorgia Meloni, “uomo dell’anno” secondo l’house organ Libero, ma indubitabilmente prima donna premier del nostro paese, che sul suo essere donna fonda gran parte della sua comunicazione politica, a quanto pare vincente? Un primato che l’accomuna sul fronte opposto con la competitor Elly Schlein ma soprattutto con tante leader della destra che si sono affermate negli ultimi anni. E tutto questo quanto mette in contraddizione il femminismo, storicamente ancorato a sinistra? Sono alcune delle domande a cui cerca di rispondere la filosofa Giorgia Serughetti -una delle esperte citate del database 100esperte promosso da GiULiA giornaliste e Fondazione Bracco- nel suo pamphlet Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica (pp. 152 Donzelli, 17 euro) che spazia tra citazioni di Olympe de Gouges, Carla Lonzi, Donna Haraway, Norberto Bobbio e Giorgio Gaber per mettere in chiaro cosa è di sinistra e cosa no nelle questioni di genere che riaffiorano nel dibattito pubblico contemporaneo.

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Una delle questioni più insidiose è proprio l’utilizzo, o l’esproprio, di temi peculiari del femminismo da parte di Meloni e del suo entourage, manipolati per mescolare l’emancipazionismo all’ultraliberismo. La vittoria di Meloni è una vittoria di tutte le donne? Serughetti a questa domanda risponde con decisione no: è la vittoria di una donna, un caso eccezionale. Del resto proprio su questa eccezionalità si basa l’autonarrazione di Meloni:  dall’underdog a palazzo Chigi. Un racconto che non mette mai in discussione un sistema di valori patriarcale, tranquilizzando  così l’elettorato conservatore. Prova grossolana e lampante, sottolineata dall’autrice, è l’insistenza con cui la neopremier ha preteso già nei primi minuti del suo insediamento di farsi chiamare al maschile: un modo di rimarcare quell’eccezionalità, unita all’ostinazione nel considerare il femminile come svalutativo, una “sgrammaticatura” contro cui GiULiA giornaliste combatte da anni. Come nel caso del thatcherismo, il modello narrativo è l’esaltazione delle capacità individuali, che non diventa mai trasformazione collettiva, non mette in discussione il sistema e rassicura i “maschi bianchi”.

 Per Serughetti quella di Meloni è quindi la «reazione dal volto gentile», che vede in pista altre campionesse della reazione,  nel senso stretto di reazionario, come Marine Le Pen, che «giocando con la propria identità sessuale» propongono «un modello di leadership che coniuga emancipazione e tradizione, adesione all’ordine patriarcale e valorizzazione della forza femminile». In questo quadro si spiegano anche «processi di appropriazione selettiva e strumentalizzazione di linguaggi e temi femministi». Con cortocircuiti capaci di scompaginare  posizionamenti politici consolidati. Un classico è strumentalizzare argomentazioni proprie del femminismo cosiddetto “gender critical” contro il concetto di identità di genere , in opposizione ai movimenti Lgbtqi+ , con l’obiettivo però di farsi paladine della famiglia tradizionale e della tradizionalissima divisione dei ruoli. Uno dei pilastri del discorso politico di questa destra è l’esaltazione della donna madre: dal richiamo pop «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre» alla madre della nazione, alle madri che devono assicurare la riproduzione della stirpe, ma solo se native e contrapposte alle altre madri che native non sono. Con tutte le implicazioni sul tema della natalità e dei diritti riproduttivi, che diventano priorità nazionale e quindi questione scippata dal perimetro delle libertà e dell’autodeterminazione della donna. E anche qui è evidente un’appropriazione creativa del linguaggio dei diritti da parte del fronte antiabortista, quando si enfatizza con una capriola di senso il ”diritto della donna a non abortire” per minare le basi della legge 194.  

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La parte forse più sfidante del saggio di Serughetti riguarda però cosa devono fare il femminismo e la sinistra di fronte a questo stravolgimento semantico e di obiettivi delle questioni femminili. E’ l’annosa questione dell’opposizione tra giustizia sociale e diritti, emersa con forza dai tempi della vittoria di Trump, che spiega l’arretramento a livello planetario della sinistra con il fatto di aver dato troppa importanza ai diritti civili (di donne e minoranze varie) e troppo poco ai diritti dei lavoratori e all’equità sociale.  Un’opposizione fuorviante per Serughetti: «Solo in condizioni di non discriminazione tra donne e uomini, tra cittadini e migranti, tra maggioranze e minoranze etniche e sessuali si possono ridurre le disuguaglianze di tipo sostanziale». La strada per uscire dall’impasse, suggerisce Serughetti, è quella indicata dal femminismo intersezionale, secondo la definizione elaborata nel 1989 da  Kimberlé Creshaw, che partiva dalla doppia discriminazione subita dalle donne nere: in quanto donne e in quanto nere. In questa accezione tutto si tiene. Una politica di sinistra, che aspira all’emancipazione degli oppressi e alla giustizia sociale, non può che essere anche femminista e viceversa, il femminismo  che rivendica il rispetto delle differenze non può che aspirare al superamento delle diseguaglianze e quindi essere di sinistra. A dispetto della Meloni.

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